Un’intervista di Caterina Caravaggi per "Libertá" del 6 Febbraio 2007
Folco Quilici. Di Bruna Bignozzi. "La Nuova Ferrara", Febbraio 2007
Clicca qui per leggere la Prolusione in occasione dell'attribuzione a Folco Quilici della Laurea Honoris Causa, all'Università di Ferrara il 13 marzo 2003
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di Giovanni Russo del libro "L'Abisso di Hatutu"
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di Tullio Kezich
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Braudel
Folco Quilici,
il mondo non basta
di Tullio Kezich
"Pour l'enfant, amoureux de cartes et
d'estampes, - L'univers est égal a son vaste appétit
".
Attraversando l'appassionante monografia scritta da Ilaria Caputi,
mi sono tornati in mente i versi che aprono Le voyage di Baudelaire
perché la figura di Folco Quilici, al centro di un reticolo
di "voyages extraordinaires" degni di competere con la
sfrenata inventiva di Jules Verne, è ben simboleggiata dall'immagine
poetica del fanciullo voracemente proteso sulla sconfinata realtà
del pianeta. Se c'è un cineasta che nelle sue divagazioni
antropologico-avventurose è riuscito a realizzare un sogno
d'onnipotenza infantile raggiungendo le più remote plaghe,
immergendosi negli abissi dell'oceano e alzandosi in volo per contemplare
il mondo dall'alto, questi è l'autore di Sesto Continente.
Nel prenderne atto dobbiamo aggiungere che i viaggi di Quilici non
sono mai stati programmati sulla base di pregiudiziali ideologiche
o scelte geopolitiche. Fin da principio il nostro si è mosso
in base alle occasioni, agli estri e alle curiosità: questo
libro non è infatti il ritratto, vita e opere, di un esploratore
con la macchina da presa, ma il tentativo di tenere dietro e un
indefesso scorridore di territori a rischio. E che non stiamo parlando
di un turista per caso, ma di un pellegrino esposto di continuo
a "emozioni e paure" lo prova l'elenco (non aggiornato)
di queste ultime, che apre la raccolta di racconti L'avventura e
la scoperta: "[
] perdermi nell'Oceano Indiano - Maldive,
1984 - cader con l'elicottero - Veneto, 1967 - mancarmi (momentaneamente)
la parola per una quasi embolia - Eolie, 1987 - farmi "caricare"
da un elefante - Congo, 1955 - o da uno squalo azzurro - Dalhak,
1952 - rovesciarmi in canoa e schiacciarmi due vertebre - Tuamotu,
1970 - farmi prendere a fucilate da militari in divisa - Saigon,
1962 - o da altri non in divisa - Beirut, 1972".
Prevedo che il lettore resterà sorpreso, com'è capitato
a me, di fronte alla mole costituita dagli elenchi delle opere filmate
e scritte di Quilici stabilite dall'autrice, che corredano questo
volume. Sono liste lunghissime di titoli relativi a un'operosità
che dal cinema e dalla televisione spazia su giornalismo, letteratura,
fotografia, storia, antropologia, archeologia e campi contigui.
Questi cataloghi, articolati sull'arco di mezzo secolo, non finiscono
più: Folco trascorre di continuo da un posto all'altro e
annota ciò che gli accade intorno, si destreggia in un moto
pendolare dalla pellicola alla pagina e viceversa, ci ragiona e
scrive. L'ormai frusto aggettivo "multimediale" non basta
a connotare un tale immenso accumulo di lavoro sul campo, né
a individuarne tutti i collegamenti e le motivazioni profonde.
Di tali approcci solo apparentemente dispersivi colpiscono, ferma
restando la costante padronanza degli strumenti tecnici, due aspetti
che di solito non vanno insieme: la coerenza e l'eclettismo. Da
una parte è dagli anni Cinquanta che il nostro, pur variando
ambiti e metodi, va facendo lo stesso lavoro di ricerca, impaginazione
e scrutinio del reale. Dall'altra le mete dell'autore sono sempre
diverse, i suoi itinerari lo avviano volta a volta verso l'uno o
l'altro dei quattro punti cardinali toccando la Polinesia e il Sud
America, l'Africa e l'India, i mari e i deserti, i paradisi perduti
e i nuovi inferni del turismo di massa. Nonché, sul filo
della razionalizzazione, il passato remoto e il futuro. Per tornare
ciclicamente alla messa a fuoco, all'analisi e all'orgogliosa riproposta
della matrice culturale mediterranea sulle lucide indicazioni metodologiche
di Fernand Braudel. Nell'illusione neoilluminista che ci sia sempre
qualcos'altro di sconosciuto, di dimenticato o di sommerso da ritrovare,
da verificare e da vivere. Dopodiché, sulla base di nuove
acquisizioni, saremo in grado di affrontare meglio i nostri compiti
e i destini del vecchio continente.
Verso Folco Quilici noi scribi di cinema ci sentiamo in debito nel
senso che abbiamo seguito la produzione della sua prodigiosa fabbrica
d'immagini disordinatamente e a intermittenze. Sicché guardando
alla filmografia, sulla scorta del puntiglioso referto che finalmente
abbiamo fra le mani, scopriamo imbarazzanti lacune. Abituati come
siamo a operare nell'ambito dei rispettivi orti conclusi, il continuo
trascorrere di un autore da un mezzo espressivo a un altro impedisce
di cercarlo dove si trova in quel momento; e in proposito basterebbe
considerare la differenza che passa fra la ritualità delle
presentazioni dei film (le visioni stampa, i festival, le prime)
e l'occasionalità della programmazione televisiva. Anche
per ricordare ai non addetti ai lavori che nei quotidiani chi si
occupa di cinema non scrive di tv (e la vede poco); e l'accesso
ad altri settori è interdetto a tutti e due gli specialisti.
Insomma se esce il romanzo di un regista, finisce in mano al recensore
letterario. S'intende che non cerco scuse per i peccati d'omissione
dei cinecritici, voglio solo evidenziare alcune delle ragioni di
un'intermittente quanto perdurante sfocatura nel considerare l'opera
dell'autore di Oceano.
A proposito del quale si sono venuti formando molteplici equivoci,
a cominciare dal modo di definirlo. C'è chi l'ha etichettato
documentarista, ma la classificazione gli va stretta. E' vero che
il suo modello di riferimento è il gran patriarca Robert
Flaherty, ma è anche vero che in ultima analisi L'uomo di
Aran o Louisiana Story sono dei romanzi di genere particolare. Asseriva
Mario Soldati: "Non si può bere una bibita se dentro
non c'è un po' di alcol". Analogamente il nostro cineasta
sembra convinto che un documento senza un pizzico di fantasia non
ha sapore. Da ciò l'azzardo di travestire da romanzi le sue
inchieste, vedi il recente libro Alta profondità sull'affondamento,
da parte dei tedeschi, della corazzata italiana "Roma"
al largo della Sardegna il 9 settembre 1943.
Del resto il giovane si fa le ossa nel momento in cui domina un
certo documentarismo calibrato su pizze da dieci minuti, legato
nei casi migliori alla curiosità della "costa vista",
all'esercizio di stile e all'elzevirismo più corrivo che
sapiente dei commenti parlati. Questo tipo di modello non attrae
affatto l'inquieto allievo del Centro Sperimentale e lo trova anzi
in polemica: sulla svolta fra gli anni Quaranta e Cinquanta egli
sta rimuginando sulla propria vocazione preparandosi a diventare
un autore di quella che poi sarà la "commedia all'italiana",
orientato cioè verso l'invenzione di film irridenti e grotteschi.
Solo quando vede Lo sceicco bianco, opera prima esecrata dai benpensanti
e da lui recepita invece come un forte segnale di novità,
Folco prende atto che quella strada l'ha imboccata Fellini e che
a chiunque ci si provasse toccherebbe la sorte dell'epigono. Meglio
guardarsi intorno e inventare qualcos'altro.
E questo "qualcos'altro", cioè il perimetro operativo
di un regista destinato a non assomigliare a nessuno, si configura
quasi inavvertitamente, giorno per giorno, tramite le scelte personali,
il gusto di sposare o promuovere certe iniziative piuttosto che
altre, le occasioni che si presentano per la strada. Non sto a rifare
l'iter, del resto sorprendentemente rapido, di come Quilici diventa
Quilici: il lettore ne ritroverà le tappe nel preciso resoconto
della Caputi. Fatto sta che da quel documentarista che non ama i
documentari matura un artigiano della pellicola in apparenza refrattario
all'impegno politico, che negli anni Cinquanta sembra ossessionare
buona parte dei suoi colleghi tra militanze nei partiti e firme
di protesta. Succede però che nel tempo il presunto disimpegnato
viene sempre più rafforzando i legami viscerali con alcuni
temi che oggi, all'inizio del nuovo secolo, sono diventati quasi
ovunque obiettivi politici di vitale importanza e attualità:
l'ecologia ambientale, la difesa delle culture originarie, il terzomondismo,
l'antirazzismo, la necessità di tutelare il diritto dei popoli
alla sopravvivenza attraverso la pace. Ed è sintomatico che
la crescita intellettuale del nostro si svolga in sincrono, a partire
dagli anni Sessanta, con la rinascita e la diffusione del nostro
Paese degli studi di antropologia e folklore, di cui Quilici diventa
uno dei principali alfieri e illustratori.
Sui sentieri solitari dell'indipendenza, il cineasta finisce gradualmente
per approdare, quasi senza rendersene conto, a un impegno politico
molto più radicale di quelli che ha trascurato: e quando
molti suoi colleghi imparano ad affacciarsi sui territori delle
scienze umane e dei diritti civili, lo trovano già là.
Certo, in termini di impegno sociopolico, ha lasciato in lui un
segno profondo la caduta dell'illusione che l'Africa, nel corso
del processo di decolonizzazione, riuscisse a imboccare una sua
strada di liberazione e di progresso. Mentre invece non risulta
che negli anni formativi l'autore di Ti-koyo e il suo pescecane
abbia sofferto granché della più o meno esplicita
discriminazione riservata ai non allineati sul fronte dell'ortodossia
politica. Forse l'ha aiutato a proteggere le sue diversità
il fatto di essere sempre altrove, in giro qua e là per il
mondo; e di conseguenza indotto a trasferire i discorsi di casa
in dimensioni planetarie.
A tale proposito, come contrastante notazione sull'ambiente del
cinema romano, voglio ricordare un'esperienza personale fatta agli
inizi degli anni Settanta, quando per una miniserie d'avventure
da girare in India e Malesia la Rai mi affidò l'incarico
di trovare un regista: interpellati, nove cineasti su dieci mi risposero
di no. Pur allettati dall'offerta, ritenevano rischioso restare
un anno senza farsi vedere a Cinecittà o nei caffè
di Piazza del Popolo. Un vecchio adagio dell'ambiente raccomanda
infatti: "Nel cinema la presenza è tutto". Ebbene,
Quilici se ne è serenamente infischiato di questa e alte
regole di comportamento corporativo, ha sempre preso l'aereo quando
ha voluto e per la destinazione che in quel momento lo stimolava.
Si aggiunga che fra un viaggio e l'altro, fra un libro e un film,
il nostro non si è fatto sopraffare dalla tentazione di crogiolarsi
nella presunzione autoriale ovvero di coltivare la spocchia del
demiurgo: tant'è vero che ha spesso accettato di condividere
con altri la titolarità dei suoi lavori. Significativo in
questo senso l'incontro importantissimo con Braudel per collaborazioni
dove Folco impara molte cose dallo storico degli "Annales"
e ne trasmette gli insegnamenti a pronto video. Si presenta insomma,
in tutta semplicità, come allievo e maestro nello stesso
tempo. Perché c'è sempre qualcosa di più importante
del film che stai facendo; e perché nella concezione di Folco
il cinema non è il fine del suo operare, ma soltanto un mezzo.
Ho visto o rivisto negli ultimi giorni parecchie cassette firmate
Quilici e ne ho tratto impressioni varie. Non ho risolto, a dire
il vero, il dubbio di sempre: se il nostro viaggia per poter fare
i film o se fa i film per poter viaggiare. Perché dall'interno
del suo discorso, anche nei momenti più impegnati, trapela
la pulsione ludica del fanciullo di cui parlava Baudelaire; e anche,
lo dico sommessamente, una vena poetica alla quale dà slancio
l'ispirazione musicale di Ennio Morricone. Non parlo, sarebbe troppo
ovvio, della sensazione tonificante che trasmettono molti suoi film,
quella di respirare l'aria dei grandi spazi aperti che tanto manca
ai nostri polmoni stracittadini; e neppure voglio insistere sull'arricchimento
che deriva dal ripercorrere in buona compagnia le tappe fondamentali
della vicenda umana in chiave alternativamente epica o minimalista.
Confesso tuttavia che davanti al video mi sono sentito crescere
dentro, passando da Ti-koyo e il suo pescecane a Oceano, da Identità
Europa a L'Italia dal cielo, il rimorso del sedentario. O vogliamo
addirittura chiamarla invidia verso chi è di casa in ogni
parte del pianeta in cui viviamo? Ho insomma sperimentato ciò
che voleva esprimere Thomas Mann quando all'inizio di La morte a
Venezia Gustav Aschenbach vede il misterioso straniero con il sacco
alpino e il bastone ferrato ed è preso da un improvviso e
irresistibile desiderio. Viaggiare per innamorarsi, proprio alla
Folco Quilici, "delle mille apparenze del mondo".
TOP
L'opinione di Fernand Braudel
(1983)
Per accostarsi nel miglior modo all'opera di Folco Quilici è
importante aver capito e ben capito il suo Autore.
Scrittore, egli è l'uomo delle spiegazioni, delle interrogazioni
che disciplinano e guidano le parole. E con quale brio: Folco Quilici
scrive come un romanziere di successo. Nessun pericolo per il lettore
di non voltar le pagine rapidamente e con grande piacere!
C'è bisogno di dire che egli è ancor più l'uomo
delle immagini e da questo punto di vista, uno dei primi, dei più
prestigiosi che vi siano nel mondo delle immagini che parlano, che
traducono il discorso, che in esso si inseriscono con forza e vi
esplodono come a piacimento, perciò un solo paragone si rivela
valido per situare Folco Quilici, quello di un pianista dotato di
grande padronanza tecnica: le note della mano sinistra si inseriscono
nella serie delle note della mano destra, la mescolanza è
la musica, la poesia avvincente di libro e film assieme.
Ho visto a Parigi un film di Folco Quilici sul Barocco: a dimostrazione,
ancora una volta, della sua padronanza tecnica. Roma sorgeva dinanzi
ai nostri occhi con la marea, fino all'orizzonte, dei suoi tetti
dalle tegole in cotto, i suoi monumenti di pietra, le sue fontane,
commoventi ad ogni mutare delle sequenze. Sono uscito da questo
spettacolo magico, ebbro di immagini e col desiderio di riveder
il film e se possibile di fermarlo su questa o quella immagine per
contemplarla con comodo.
Ora, è questo il raro piacere che offre il suo L'uomo Europeo:
le immagini, anche se esse per conto loro non chiedono che di uscire
dalla propria cornice, sono immobilizzate, messe a nostra disposizione.
Soltanto le parole corrono, e noi dietro ad esse
Io non oso dire che l'Europa rappresentata da lui nel suo passato
meraviglioso, insolente e ingiusto, còlta anche nel suo presente
piuttosto triste e disperato sia un tema piacevole come il Barocco
dallo slancio romantico di vita e di esuberanza che attraverso l'Europa
intera si pose sotto il segno luminoso della gioia di vivere. Ma
è altrettanto importante che lui abbia affrontato l'immenso
tema - l'Europa - serio, anche troppo serio, il più grave
di tutti i nostri problemi per noi abitanti del "ristretto
continente".
Perché non è solo il presente ad essere in giuoco,
ma anche il futuro. Non rischiamo noi, europei, antichi colonizzatori,
di essere a nostra volta dominati, mangiati, colonizzati o anche
distrutti? Naturalmente, io sono a favore di una Europa forte, indipendente;
ma essa rimane divisa fino alle viscere dalle sue antiche dispute,
dall'egoismo e la tracotanza delle sue nazioni. Ora, l'Europa da
fare - quella dei popoli, di tutti - non può essere realizzata
che nella libertà, l'eguaglianza, più ancora nella
fraternità, più ancora nella generosità. Non
soltanto (quando si è francesi) bevendo vino italiano o mangiando
agnello inglese, ma considerando gli altri europei, come fratelli,
amici, uguali. In verità noi siamo tutti colpevoli: se la
generosità, l'inclinazione necessaria al dono, alla carità,
l'amore verso il prossimo sono virtù rare
tanto peggio
per noi!
L'Europa il più bell'insieme umano del mondo, è un
giardino minacciato.
Con ragione Folco Quilici è più discreto di me: le
tesi, le prese di posizione appassionate, si manifestano in lui
il minimo necessario, affinché l'immagine si inquadri meglio
e la parola colpisca il bersaglio.
Inoltre egli non fa nessuna polemica, non ha tempo da perdere. Mostra
paesaggi, indica concatenazioni, lascia parlare cose e uomini. Sua
cura è mostrare la realtà tale e quale è stata,
quale continua e quale dovrebbe essere: un testimonio onesto.
Egli ha pure l'arte di ascoltare gli altri, anche gli specialisti
che, dopo tutto, sanno press'a poco ciò che accade nella
loro bottega. Essi si esibiscono, parlano sullo schermo, e Folco
Quilici li ascolta, li spinge avanti. E siccome è un regista
senza pari, li fa ben figurare. Me fra gli altri.
In verità, gli abbiamo dato delle idee, anche qualche consiglio,
abbiamo incrociato il suo cammino. Ma, passato un attimo, egli è
in Polonia, in Bolivia, in Danimarca o in America alla ricerca delle
Europe d'oltremare
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