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Folco Quilici
Filmografia
 

 

"AQUA"
19 novembre 2004

IL MIO PRIMO SQUALO PELAGICO

(Mar Rosso 1951)

Fu il nostro dirigente scientifico, Francesco Baschieri Salvadori, a identificarlo dalle immagini colte dalla mia cinepresa, come uno "squalo azzurro".

"Certamente antropofago" mi disse per spaventarmi (a posteriori).

Quel tu per tu, aveva avuto per sfondo le acque del Mar Rosso, di fronte al Sudan. Era aggressivo, grosso e non m'aiutò nessuno, a cavarmela. Se non lo strumento di lavoro che stringevo tra le mani, la mia cinepresa blimpata.

Funzionava a molla e quando la si metteva in moto, al silenzio assoluto del fondo, si sostituiva un fracasso evidentemente fastidioso, non solo a noi, ma ancor più alle creature sottomarine che si trovavano nei paraggi. Lo "scudo del rumore" non funzionò sempre - con gli squali - ma quella volta agì forse da deterrente.

M'attaccò ma non m'azzannò, il signor squalo.

Se lo avesse fatto e fossi sopravvissuto, avrei potuto vantare - come certi sub australiani - vistose cicatrici qua e là sul corpo, e sarei stato utilizzato per far propaganda al film "Sesto Continente" (che di conseguenza non avrei finito io…).

 

Lo squalo di cui racconto, l'ebbi di fronte poco dopo aver filmato una "mangianza", in un punto non lontano da una barriera corallina, isolata come una torre.

Tutt'attorno, il mare si era fatto schiumoso, migliaia di pinne e di code, di piccoli corpi argentei schizzavano alla superficie, e subito gli uccelli erano sopra aumentando le strida. S'era scatenato il massacro.

La luce dell'ora tarda aveva scurito le acque. Onde turgide e forti e si susseguivano facendo a tratti scomparire dietro un muro d'acqua la zona della mischia che era a poche decine di metri da noi, e ogni tanto si placava, poi riprendeva violenta; molte sule, stanche per il continuo volteggiare, erano venute ad appoggiarsi alla barca.

Lo squalo sbucò veloce e terribile. Ombra color ferro, di quattro o cinque metri. Uscì di prepotenza, il dorso scivolò un dito sotto il pelo dell'acqua tagliato dalla pinna che si lasciava dietro una striscia bianca di spuma. Arrivò sul mucchio dei pesci, tutto ebbe un guizzo, volteggiò la coda mentre gli uccelli salivano impauriti verso l'alto.

Io mi gettai in acqua (beata follia dei ventenni!).

Con la cinepresa ben stretta, scendevo. Gli andavo dietro. Avevo inspirato profondamente dalle bombole del respiratore e trattenevo il fiato; non volevo che il rumore dell'aria spaventasse il bestione. Lui, che sino a quel momento aveva continuato a nuotare lentamente avanti a me come se avesse intenzione d'andarsene, si rigirò. Temendo di perdere l'occasione di poterlo cinematografare da vicino, ché quella sinora era la mia sola paura, mi arrestai. Sapevo per esperienza che gli squali fuggono con un guizzo se gli si nuota decisamente incontro. Non immaginavo che questo avrebbe dimostrato un carattere ben diverso.

Nello stesso istante lo squalo prese a girarmi assai lentamente attorno, con un movimento a spirale.

Ce l'avevo nel mirino, lo filmavo. Cominciavo a essere preoccupato, a ogni giro mi veniva più vicino.

Poi mi saettò contro da una distanza di sette o otto metri, mi passò vicinissimo, fui spostato sott'acqua dal colpo di pinna dato con la coda mentre mi sfiorava. Ero abbracciato alla cinepresa, avevo istintivamente rattrappito le gambe.

Dopo avermi oltrepassato cabrò verso l'alto, in direzione della barriera di corallo, girò su se stesso e, dando con la coda nervosi, potenti colpi all'acqua, mi ripiombò addosso inclinato dall'alto in basso e passandomi così vicino che per qualche fotogramma dello squalo inquadrai solo una parte del muso con l'occhio piccolo, freddo e giallo che mi fissava.

M'aveva letteralmente sfiorato.

Mi volsi d'attorno. Per quanto immobili, sia lo squalo che io, avevano continuato a scendere. La superficie distava ormai più di trenta metri. Guardai all'indietro: la barriera! Se fossi riuscito a raggiungere i coralli che verticalmente come una montagna salivano dal fondo verso la superficie, la bestia m'avrebbe perso di vista.

Non avevo dato ancora cinque colpi di pinna fuggendo, che lo squalo s'avventò, come se avesse capito che avevo paura.

Fortunatamente l'istinto mi aveva suggerito di fuggire senza voltare le spalle al pescecane, nuotando sul dorso, con la faccia voltata al pericolo. Fu questo che mi salvò.

Vista la bestia arrivarmi addosso, con il coraggio della disperazione, gli andai incontro agitando la cinepresa, e scaricando violentemente aria dal respiratore. Avevo imparato, in quei mesi di lavoro sott'acqua, che quello, unito al ronzio della cinepresa, era uno dei tanti modi per "spaventare" gli squali.

Lo squalo parve sorpreso dalla mia reazione, e non terminò nemmeno la carica passandomi accanto, ma a due metri da me virò di scatto, allontanandosi un poco. Mentre schivavo l'ultima di queste cariche arrivò ormai completamente inaspettata la salvezza. Mi sentii bruciare la spalla destra, girai la testa e vidi che ero finito in mezzo ai coralli. Mi ci ficcai in mezzo, pungendomi, tagliandomi, non m'importava nulla. Vidi un canalone stretto, mi ci misi in mezzo e cominciai a salire verso la superficie come un alpinista. Là in mezzo la maledetta bestia non poteva raggiungermi. La vidi girare su se stessa e inabissarsi.

L'aria mi terminò a metà strada, ma arrivare alla superficie fu cosa da nulla. E lassù, mi issai su un masso madreporico appena affiorante. Mi bruciava la spalla urtata dai coralli, ma quel dolore sarebbe presto passato.

Folco Quilici