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LIBECCIO

ALcune anticipazioni

 

"Libeccio" (dal capitolo 1)

In linea d'aria solo poco più di un miglio lo separava dalla dorsale montana, pochi anni prima suddivisa in tante concessioni minerarie; tutte abbandonate, meno la loro, il Rabbit Creek del settore est. Alla base di una lunga fila di rocce incastrate una nell'altra, quel punto, visto da lontano, appariva come un castello di carte.
Rallentò il passo oltre il gomito del sentiero tra gli alti ammassi sassosi. Lo attendeva un tortuoso miglio in salita e finalmente sarebbe giunto alle baracche, una dove abitavano e l'altra dove stipavano riserve e materiali per lo scavo e la decantazione del materiale estratto.
Due capanne, costruite con tronchi d'albero da chi, prima di loro, aveva cercato invano l'oro. Basse, tozze, occupavano la base d'una lama irregolare di levigate pietre nere, avanzo di remoti vomiti geologici, dai quali probabilmente aveva avuto origine il profondo cunicolo scavato e allargato dai disperati che li avevano preceduti. Una fatica continuata da loro tre col solo risultato, dopo molto lavoro, di poche briciole d'argento.

Non erano questi i suoi pensieri, in quel momento, mentre osservava il tratto ancora da coprire. Calcolava invece se il pulcioso Rasti avrebbe udito il suo richiamo. Poteva tentare, si disse. Tra le rocce ogni suono, anche minimo, rimbalza di eco in eco.
Non spirava un alito di vento, e nel silenzio profondo si sarebbe potuta percepire anche la caduta di un sassolino dal costone della montagna.
Sorrise pensando al suo cane e si portò alla bocca il fischietto. Nessuno di loro se ne separava mai. Garantiva sicurezza quando sulla zona calavano nebbie tanto fitte da rendere quasi impossibile ritrovare la pista per il campo. Il suono era apparentemente identico, per un orecchio umano, ma il cane distingueva quale dei tre padroni aveva lanciato il segnale.
Si riempì i polmoni e soffiò con forza. Nel gran vuoto tutt'attorno il fischio saettò sulle pareti di roccia e di lì tornò moltiplicato in echi diversi.
Avanzò ancora d'un centinaio di metri e lo ripeté con più vigore, ma fischio ed eco si persero di nuovo senza risposta.
Scosse la testa e riprese il traino della slitta. Avrebbe fischiato oltre l'ultima quinta di rocce. Inutile sprecare fiato; dopo sei ore di marcia si sentiva sfinito e sudato come sempre. Accadeva anche a Strale e Greco, quando toccava a uno di loro la corvée sino a Rajak, e tornavano al campo esausti come lui e soprattutto affamati. Fino a quel momento qualche galletta l'aveva sostenuto ma non certo saziato, e lo stomaco cercava di far intendere le proprie ragioni.
Superate le ultime rocce, si riportò il fischietto alla bocca, soffiando senza interrompere il passo.
Eccolo, si disse appena apparve, lontana, un'ombra scura. Però, stringendo le palpebre per vincere il riverbero della neve, si rese conto d'essersi sbagliato. Quello non era il cane, ma un gioco di luci provocato dal dondolio d'un ramo ai margini del campo.
S'arrestò perplesso, chiamò Rasti a gran voce e subito dopo i compagni.
Nessuna risposta.
Sganciò le bretelle della slitta, corse alla capanna e la trovò vuota.
Strale e Greco erano ancora in miniera, si disse per bloccare un guizzo d'ansia. Per questo non potevano né udirlo né rispondergli. Probabilmente s'erano addentrati molto nella galleria se all'interno avevano individuato una nuova vena ed erano ancora intenti a scalpellarla.
D'improvviso, senza capirne la ragione, ebbe paura di mentire a se stesso. E si mise a correre verso l'ingresso della miniera, chiamandoli a gran voce.

Quel mattino, lasciando Rajak, Beccio non avrebbe mai potuto immaginare che stava dando inizio alla sua ultima fatica su quella pista in capo al mondo, affrontata a turno con i due compagni.
Ansimando, a volte imprecando, avanzava passo dopo passo.
All'andata, le stesse venti miglia da percorrere in lenta discesa tranquillizzavano il suo stato d'animo, sereno e soddisfatto anche se quella vita che aveva portato lui e i suoi compagni tra i monti del Klegsteine era difficile e ingrata. Ma da quasi dieci anni erano liberi, come avevano sognato.
A volte, come quel giorno, nell'affrontare il tragitto in salita del ritorno dalla città alla miniera lo sforzo del traino mutava l'umore, e allora si rinfacciava la sua stupida faciloneria. E insultava per l'ennesima volta i bugiardi propalatori di quella valanga di menzogne sulle pepite d'oro facili da raccogliere, come fossero castagne, in quelle contrade remote d'Alaska. Lui e i suoi compagni avevano troppo ingenuamente creduto a quell'illusione.
Pensieri al ritmo di passi lenti, sempre con uguale sforzo e con uguale tentazione di urlarla al cielo, quella rabbia.Ci rinunciava per non sprecare il fiato che già ora, alla fine dell'estate, poteva trasformare barba e baffi incolti in un cespuglio gelato.

Anche oggi, a metà ritorno, dopo la capanna di Uiuk, quando la pendenza si addolciva un poco, il suo umore sarebbe migliorato, lo sapeva.
A quella catapecchia costruita nel nulla lui e i suoi compagni sostavano sempre.
Sganciate dalle spalle le cinghie del traino, appena entrato in quel riparo maleodorante ma caldo, il dolore alle spalle accumulato nelle ore di salita non l'avrebbe più torturato, e accanto alla stufa avrebbe riposato sulla pelliccia consunta di chissà quale animale, gettata su sacchi di foglie. Un letto, secondo Uiuk.
Sfinito, si era sdraiato chiudendo gli occhi, e prima di crollare in un sonno profondo si era posto un interrogativo che da qualche tempo lo assillava: quel cammino ripetuto ogni tre mesi lo stancava sempre di più. Doveva rassegnarsi, considerare la possibilità che stava invecchiando in fretta?

Al risveglio trovava una zuppa calda preparata da Uiuk sempre eguale, sempre orrenda. Ma Beccio si accontentava di qualsiasi cibo, da quando aveva lasciato il suo paese era svanito il ricordo dei piatti poveri ma saporiti scodellati dalla madre o dalla sorella, sempre pronti per lui, anche se tornava a ore impossibili alla Corte della Nera, dov'era nato e viveva.
Comunque meglio questa zuppa delle fetide razioni di pemmican, unica soluzione per sfamarsi quando Uiuk s'assentava per la caccia approfittando delle interminabili giornate di giugno e luglio, per poi tornare alla capanna agli inizi d'agosto, sulle spalle il carico di carne disseccata da appendere alle pareti, pronto a venderla a loro, ultimi concessionari di miniera.
La capanna dominava uno stretto pianoro senza un albero, disteso tra mare e altipiano, lungo la dorsale montana. Un "punto di ristoro" creato dal padre di Uiuk vent'anni prima per gli allora numerosi prospector e geologi in cerca di aree minerarie e gold-digger, gli avventurieri dell'oro.
Se tra quella capanna e la cittadina di Rajak si disegnava ormai una sola pista, anni prima se ne scorgevano molte altre, dirette verso la vasta zona dove in tanti s'erano accaniti nella ricerca, scavando cunicoli nella roccia alla base di montagne sgretolate da millenni di gelo.
Beccio e i due compagni non avevano trovato l'oro, ma nella zona mineraria della quale avevano acquistato i diritti di ricerca s'era rivelata la presenza di una vena d'argento. Era infatti per venderlo che uno di loro, a turno, si recava a Rajak, trainando la pesante slitta. Depositavano il ricavato ottenuto da scavo e filtraggio e con il denaro acquistavano provviste e attrezzature. Se avanzava una minima quantità di minerale d'argento, la chiudevano in sacchetti per depositarli in quella banca nata al tempo del gold-rush e sopravvissuta con un solo impiegato, cassiere tuttofare dimenticato dalla burocrazia della lontana sede centrale.

L'esquimese della capanna, imparati i loro nomi, li ripeteva in suoni confusi, e d'altra parte anch'essi storpiavano il suo. Sorrideva, accogliendoli, esibendo una voragine dalla quale spuntavano pochi denti malandati per ricordare ai tre stranieri ancora giovani e robusti la sua età indefinibile, che sommava tante esperienze, una delle quali, ereditata dai padri dei padri, s'era rivelata molto preziosa: masticare e inghiottire il più spesso possibile bacche di un cespuglio, una sorta di mirtillo. Precauzione dei nativi per evitare lo scorbuto, il male peggiore, in quelle zone isolate.
E infatti Uiuk, malgrado le apparenze e l'età, era in ottima forma fisica, e l'aveva dimostrato proprio a Beccio in una delle soste dei primi anni. Dopo avere scolato i resti d'una bottiglia di pessimo whisky, lui e il padrone di casa s'erano sfidati davanti a un gruppo di minatori in attesa della zuppa in cottura nella capanna. Usciti all'esterno, sul piano di neve battuta, i due s'erano studiati per qualche istante. Gli spettatori li incitavano e se fra loro qualcuno scommetteva, di certo aveva puntato su quell'italiano alto, con spalle larghe e muscoli allenati. Al confronto, Uiuk pareva un ometto deforme.
Invece, appena s'erano afferrati per le braccia, Beccio non aveva avuto nemmeno il tempo di lanciare un grido e subito si era ritrovato a terra, immobilizzato da mani d'acciaio, il naso del vincitore a due dita dal suo, gli occhi spalancati fissi nei suoi, ma senza alcuna ostilità.
Sguardo apparentemente privo di espressione che s'era trovato di fronte anche oggi, accompagnato dal tanfo del suo alito; mancava poco all'alba e l'esquimese l'aveva svegliato dal lungo sonno con una tazza di qualcosa di vagamente riferibile a un caffè, accompagnato da una galletta.

Nel riprendere la marcia il suo umore cambiava nuovamente. Gli restavano otto ore di cammino, ma il percorso saliva solo leggermente, ogni tanto alleviato da lunghe e dolci discese, così il peso delle provviste e delle latte di petrolio sulla slitta non logorava più le sue spalle. E la scelta di quel genere di vita non gli appariva più un errore, ma una soluzione positiva, anche se pagata a caro prezzo. A conti fatti ne era valsa la pena. (…)

"Libeccio" (dal capitolo 17)

(…) Impossibile stabilire quanto tempo prima di giungere a quella città sull'Oceano Pacifico i tre compagni avessero lasciato Potosí. Di conseguenza risulta altrettanto impossibile stabilire quanto tempo avessero impiegato per raggiungere quel porto. Coprendo centinaia di miglia. Superando ostacoli e confini, lungo piste poco battute, unendosi a gruppi di contrabbandieri, vivendo con loro fatiche e traversie pur di evitare i controlli delle polizie di frontiera.
L'amore tra Beccio e Soledad non era stato tradito né dall'uno né dall'altra, né s'era affievolito nemmeno quando a separarli si distesero spazi e tempi difficili da immaginare. Solo per un atto d'amore quel rapporto si era spezzato, permettendo all'odissea verso la terra dell'oro di riprendere, puntando verso nord. (…)

"Libeccio" (dal capitolo 20)

(…) "V'è capitato in altri ingaggi di catturare animali di grandi dimensioni e caricarli a bordo?" aveva chiesto don Clorindo appena mollati gli ormeggi, aggiungendo: "Dovremo presto caricare molte tartarughe giganti sul ponte della nave".
Ai tre era parso di non aver capito bene, anche perché l'accento cileno rendeva la lingua del comandante diversa dallo spagnolo parlato da argentini, boliviani e peruviani. Ma Beccio aveva risposto con la solita spavalderia.
"Nessun problema, comandante."
Di problemi, invece, quelle tartarughe ne avrebbero posti molti, e lo sbarco dei marinai feriti al Callao avrebbe dovuto offrirne la prova, se i tre amici avessero capito il motivo per cui erano stati assunti tanto rapidamente.
"Voi dovrete lavorare a bordo, ma anche faticare a terra" aveva precisato don Clorindo. Pronunciando la parola terra si riferiva alle superfici di basalto dell'arcipelago delle Galápagos, dove il suo cargo era giunto undici giorni dopo aver mollato gli ormeggi dal Callao.
In quel desolato insieme di isole vulcaniche, mezzo secolo dopo sarebbe sorta una prima base scientifica fissa per studiare la particolare fauna locale, e sarebbero occorsi altri decenni prima dello sbarco di un turista. Al tempo dell'odissea di Beccio e dei suoi amici l'abitavano solo migliaia di orride iguane anfibie, colonie di pinguini e famiglie di tartarughe giganti, ambita preda di chi sostava in quelle solitudini.
I loro grossi e grassi corpi fornivano cibo in grado di conservarsi a lungo; particolarità importante al tempo in cui non esisteva alcun sistema refrigerante. Rovesciate a zampe all'aria sul ponte, quelle bestie d'oltre tre quintali si dimostravano in grado di sopravvivere senza nutrirsi per settimane, e venivano uccise solo quando serviva carne fresca.
Era stata una consuetudine per le baleniere in caccia nel Pacifico durante il XIX secolo, quando scarseggiavano viveri a bordo o come alternativa a pasti di solo pesce, si faceva una sosta alle Galápagos. Gli uomini sbarcavano e le tartarughe venivano catturate e caricate a bordo in gran numero, per poi essere uccise a una a una nelle settimane successive in modo particolarmente crudele. Alle bestie di maggiori dimensioni si amputavano infatti parti del corpo, ed era così possibile cibarsi più volte della stessa preda.
"Possiamo indignarci ma non sorprenderci" aveva commentato don Clorindo, aggiungendo un'altra pennellata d'orrore. Altri naviganti del Pacifico, i famosi trasmigratori polinesiani, si attrezzavano alla sopravvivenza in oceano non solo caricando sulle loro grandi canoe noci di cocco e frutti dell'albero del pane, ma anche carne fresca se riuscivano a imbarcare anche un guerriero di una tribù nemica. Infatti il prigioniero era condannato a vedersi amputare ora un braccio ora l'altro, utilizzato come pasto. Solo così i trasmigratori riuscivano a restare in forze durante le interminabili navigazioni tra isole e atolli sparsi nell'immensità del Pacifico.

Beccio e gli amici non avrebbero mai potuto immaginare le dimensioni e la forza delle tartarughe da catturare e portare a bordo. Imbarcandosi, ignoravano tutto della Geochelone elephantopus, non sapevano dei suoi trecentocinquanta chilogrammi di peso e di come sapesse difendersi con morsi e zampate.
Solo nel trovarsene di fronte un centinaio, tutte enormi, avevano capito come mai i marinai precedentemente arruolati da don Clorindo fossero sbarcati feriti ed ammaccati e avessero rinunciato all'ingaggio.
Anche per loro l'operazione era stata difficile e molto faticosa.
Giunta al termine, sul ponte della nave centosei gigantesche prede giacevano, zampe all'aria, condannate a sopravvivere, bagnate d'acqua di mare due volte al giorno.
"Non debbono soffrire né sete né caldo" era stato l'ordine del comandante. "Non hanno bisogno di cibo, gonfie di grasso come sono. Quando sarà il momento di venderle, la parte commestibile peserà solo poco meno di oggi." (…)