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Terre d Avventura


Terre d'Avventura

di Folco Quilici

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Fucilandi sul Nilo

Ero al lavoro non per un film, ma per i programmi culturali della RAI, un lungo servizio sull'antico Egitto. Desideravo cogliere immagini delle rive del Nilo, dove a quanto si assicurava, dall'alba al tramonto la vita seguiva ritmi non molto diversi da quelli di dieci o venti secoli prima.

Lasciato un molo di Assuan al primo chiarore dell'alba, iniziammo a scendere il fiume con il favore della corrente. Nostra meta, Luxor, dove saremmo giunti prima di notte; così aveva assicurato l'agenzia egiziana alla quale m'ero rivolto per il nolo di una barca a motore tutta per noi. Non avrei potuto cogliere le immagini che desideravo percorrendo quel tratto del sacro fiume a bordo di barche cariche di turisti.

Eravamo stati accontentati con la "Princess of Nile", scafo metallico (assai arrugginito), due membri d'equipaggio, la vela da tempo inutile, arrotolata a un lungo bompresso fissato al centro della tolda. Sotto la quale borbottava un motore cui occorreva prestar fiducia.

In navigazione, s'era pronti a filmare e fotografare sin dalle prime luci dell'alba; ma dopo qualche ora dovevo constatare che sulle rive non apparivano né contadini al lavoro nei campi né tantomeno pescatori con reti immerse nelle acque del fiume; pensai allora di utilizzare diversamente il tempo a disposizione. Avrei rivolto alcune domande al timoniere, dal venerando aspetto doveva averne viste molte sul fiume e dal suo racconto mentre stringeva il timone, poteva nascere una buona sequenza.

Chiesi ad Aldo l'operatore, a Marco l'assistente, a Duilio il fonico e a Tonino "delegato" RAI per quella produzione (tutti e quattro "reduci" da altri viaggi insieme) di seguirmi a poppa, dove sedeva il timoniere. Gli avrei posto domande in inglese, m'avevano assicurato che in linea di massima lo capiva, ma se m'avesse risposto in arabo, l'avremmo successivamente tradotto.

Allora, come oggi, il mio modo di registrare una testimonianza, si trattasse di un noto professore di Harvard o, come in questo caso, di un umile barcaiolo, era piazzare l'operatore con la sua attrezzatura a una certa distanza dall'intervistato, in modo che questi non si sentisse imbarazzato; e così il fonico, una volta sistemato il microfono. L'operatore, montato sul suo apparecchio un teleobiettivo per avere il protagonista in primissimo piano, mi fece cenno di aver iniziato a filmare, ed io stavo per porre la mia prima domanda quando alzò una mano e interruppe la ripresa: "Scusa un momento…" mi disse allarmato.

"Cosa succede!".

"Vai vicino al timoniere e fissalo negli occhi."

Seguii l'invito e m'accorsi che il vecchio egizio alla barra sembrava non aver notato la mia presenza a un passo da lui e compresi l'imbarazzo dell'operatore. Gli occhi del timoniere, dalla pupilla d'un verde smagliante, erano fissi nel vuoto. Mossi una mano davanti al suo viso, lo sguardo restò immobile, l'uomo al timone della barca era cieco. Eppure aveva manovrato bene, uscendo dall'ormeggio di Assuan, seguendo senza esitazioni l'andamento del fiume e le sue volute.

Come ci fosse riuscito avremmo dovuto capirlo già da tempo, notando il gran parlare a voce alta del suo marinaio, un ragazzino sempre appollaiato a prua. Evidentemente incaricato di indicare al vecchio assiso a poppa le correzioni di rotta necessarie.

Insomma, avanzavamo sul Nilo guidati da un sistema non molto diverso da quello di un navigatore GPS montato sulle auto di oggi, in grado di suggerire al guidatore "… curvare alla prima a sinistra… a trecento metri immettersi sulla carreggiata di destra…".

Passato un lungo momento di sgomento, mi dissi che in fondo non fosse il caso di drammatizzare; se quel sistema era stato applicato con successo sino ad allora, inclusa la manovra nel porticciolo di Assuan, perché non avrebbe dovuto continuare a funzionare? Non dicemmo nulla, quindi, e cercammo di filmare la scena del duetto per poi narrare ai futuri telespettatori quella singolare tecnica di navigazione.

Era però destino, quel giorno, di dover via via rinunciare ai programmi di ripresa. Infatti nemmeno era stata posta la prima domanda che già fummo obbligati ad occuparci d'un inatteso problema.

La "Princess of Nile" si era arenata.

Avanzava sino a quel momento molto lentamente, sicché quando finimmo sul traditore banco di sabbia, l'incaglio fu poco percettibile e l'allarme non venne da noi, ma dal ragazzino di prua. Corse a gran balzi a poppa e si mise a parlar animatamente al vecchio. Annunciato l'inconveniente si gettò coraggiosamente sottobordo (coccodrilli si sa non ne nuotano più nel Nilo da un paio di cent'anni, non era il caso di preoccuparsi). L'acqua gli arrivava alle spalle e lui, con le mani sulla fiancata, tentava con ingenua buona volontà di smuovere il barcone. Ci togliemmo i pantaloni e saltammo in acqua anche noi, per spingere con tutte le nostre forze. Senza però smuovere la "Princess of Nile" nemmeno d'un centimetro.

Tornammo a bordo demoralizzati. Ritrovando un minimo di fiducia solo quando ci riuscì di interpretare poche parole e molti gesti del giovane mozzo. Indubbiamente aiutarono i rumori dei camion provenienti dall'altra parte del fiume a farci immaginare come possibile un'alternativa al viaggio sul fiume: saremmo giunti a Luxor via terra. Per di più era vano sperare che una barca di passaggio sul fiume s'accostasse per rimorchiarci (nessuno avrebbe rischiato di restare a sua volta incagliato). Insomma, fummo tutti d'accordo per iniziare l'evacuazione. Ma come? Impossibile a nuoto raggiungere la costa sull'altra sponda del Nilo, con l'attrezzatura tecnica da portare con noi; e infatti non questo suggeriva il ragazzo, ripetendoci nel suo scarso inglese quanto da poppa urlava il suggeritore. A suo avviso si poteva scendere e raggiungere la costa vicina, accanto al barcone, camminando nell'acqua bassa con i bagagli in spalla. Seguendo poi quella riva avremmo raggiunto un ponte, si trovava poco oltre l'ansa, a mezzo chilometro dal punto dove ci trovavamo. Ancora in costruzione secondo il vecchio, ma a piedi lo si poteva percorrere. Giunti sulla riva opposta, avremmo poi chiesto un passaggio per Luxor, appostandoci sulla strada; oppure rivolgendoci a una piccola stazione sulla linea ferroviaria dove qualcuno ci avrebbe aiutato.

Proposte per la verità confuse, basate su ipotesi non verificabili. Ma esisteva un'alternativa?

In effetti quel giorno, arenati sul Nilo, di soluzioni non se ne prospettavano di diverse da quella suggerita; e per di più il sole stava salendo in cielo e arroventava le lamiere arrugginite che ci tenevano a galla.

Sì: raggiungendo il ponte avremmo proseguito il viaggio via terra.

Divorato uno spartano assaggio dei panini portati con noi e qualche sorso di Coca-Cola, lasciammo viveri e bevande ai due, immaginando il tempo che sarebbe passato prima dell'aiuto di un volenteroso barcaiolo di passaggio; comunque noi non avremmo potuto caricarci in spalla nemmeno uno dei quattro ice-box con cibo e bevande lasciati a bordo, carichi come s'era di cinepresa, treppiedi, casse della pellicola, borsone delle macchine fotografiche, registratori, cassa delle batterie e dei cavi. Dividemmo per cinque il carico e scendemmo in acqua.

Avviandoci con passi cauti verso la riva, volgevamo le spalle alla "Princess of Nile", e poiché eravamo ben attenti a dove poggiare i piedi, tardammo alcuni minuti prima di gettare uno sguardo alle nostre spalle; e vedere il barcone andarsene con la corrente, alleggerito dal peso di noi cinque e del materiale ora sulle nostre spalle. Il ragazzino si agitava correndo da prua a poppa e viceversa, evidentemente al vecchio nocchiere non erano sufficienti le sue indicazioni per compiere la difficile manovra d'invertire la rotta; e se mai ci fosse riuscito, come avrebbe potuto riaccostare e caricarci senza finire di nuovo in secca?

Interrogativi inutili. Intendessero o no tornare indietro, tentar la manovra per recuperarci, i due e il loro barcone, scomparvero oltre la curva del fiume.

A questo punto del racconto, vorrei ricordare un dettaglio sul nostro abbigliamento, quel giorno. Il colore delle camicie e dei pantaloni da noi indossati, avrebbe avuto un peso non indifferente sul seguito dell'avventura.

Partendo dall'Italia, avevamo dovuto attenerci ad una decisione della Direzione RAI: laddove una troupe fosse stata "di scena", chi la componeva doveva evitare d'essere abbigliato come un vacanziere, camicie sgargianti e chissà quali berretti sul capo; così come spesso si era visto in vari programmi. Doveroso, invece, tenere sul capo un normale cappello di tela beige e camice e pantaloni kaki; (a quel tempo la RAI era assai generosa; ad esempio, quando con la stessa equipe ero stato inviato a Dakar per il Festival Mondiale delle Arti Negre, noi tutti avevamo piegato in valigia ottimi smoking con relative camice, scarpe e cravattino a farfalla; il tutto a spese dall'economato RAI).

Eravamo dunque in marcia con pantaloni, camicia e berretto kaki sulla sponda destra del Nilo, carichi di bagagli. Ci eravamo resi conto quanto fosse preferibile camminare con l'acqua sino ai polpacci piuttosto che sulla riva fitta di cespugli spinosi. Percorremmo circa un chilometro sguazzando faticosamente, quando scoccò il momento del colpo di scena.

Superata l'ansa del fiume, apparve il ponte in costruzione e rinfrancati da quella vista, ritenemmo sufficiente un ulteriore sforzo di una decina di minuti per raggiungerlo. E trovare qualcuno disposto a guidarci sino alla strada o alla ferrovia sull'altra riva.

Qualcuno in effetti si trovava sul ponte e ci stava osservando avanzare con il nostro carico. Non aveva però, la caritatevole intenzione di darci una mano, ma aveva deciso di spararci.

Si sollevò accanto a noi uno schizzo d'acqua e il relativo colpo d'arma da fuoco.

Immobilizzati per lo spavento, vedemmo altre canne di fucile apparire sul parapetto chiaramente puntate verso di noi. Qualcuno premette il grilletto e scaricò una terrificante raffica di colpi fortunatamente rivolgendoli al cielo.

Immobili, ci mettemmo ad urlare. "Italiani!... italiani!... amici…". Avremmo anche dovuto alzare le mani, ma come fare con il materiale di cui eravamo carichi?

Preceduti da un altro colpo in aria, un gruppo di soldati apparve sulla riva sempre con i fucili spianati.

Sarò breve, anche se in realtà l'incresciosa situazione si protrasse da quel momento sino al tramonto.

Fummo maltrattati prima di capire dalle grida del più agitato dei militari, l'equivoco. La parola "Israel…" veniva ripetuta e gridata; ma in tanto trambusto era impossibile farci riconoscere come di un'altra nazionalità. Tutto sarebbe stato più semplice se si fosse potuto accedere ai nostri passaporti, chiusi nella borsa subito sequestrata e ammucchiata con le altre nostre attrezzature. Chissà cosa aveva in mente quel sergente, forse pensava che fosse un sofisticato carico di esplosivi trasportato da sabotatori paracadutati dal nemico…

Aldo ebbe l'incauta idea di gridare: "Turisti!... We are tourist!" provocando la reazione di farci strattonare le camice color kaki, così simili a quelle militari e tanto diverse (ottima idea RAI!) da quelle dei variegati colori indossati dai turisti in visita alle piramidi o ai templi di Luxor.

Insomma, si sommava la nostra paura all'isterismo loro, giustificato, peraltro, da una guerra che era stata combattuta solo da pochi mesi tra egiziani e israeliani la cosiddetta "guerra dei sei giorni", nel 1967.

Obbligati a metterci in fila lungo il parapetto del ponte, fu quello il momento peggiore; fortunatamente non fummo giustiziati, come testimonia questa cronaca, perché dopo lunghi minuti di angoscia, tutto si risolse con l'arrivo di un ufficiale. Inizialmente appariva più minaccioso dei suoi bravi soldatini, ma dopo avermi ascoltato ripetere a gran voce, "Pas-sa-porto!", mi concesse di infilare le mani in una delle sacche ed estrarre il primo dei cinque documenti. Preso coraggio, Duilio e Aldo senza chiedere ne attendere un'autorizzazione, aprirono a loro volta le casse termiche ed estrassero la cinepresa e esibirono macchine fotografiche, obiettivi, scatole di pellicola.

Al di là del fiume e del ponte, mi si scusi l'involontaria e imperfetta citazione di Hemingway, la vicenda ebbe poi un seguito e un sospirato lieto fine.

Cambiato radicalmente l'atteggiamento ostile, l'ufficiale ci prese in simpatia e ci consigliò di non metterci a bordo strada, facendoci coprire da nubi di polvere prima di convincere l'autista d'un camion di passaggio a caricarci. Lui ci guidò al casello ferroviario, dove apparentemente non si vedeva nessuno. In realtà l'impiegato e la moglie, entrambi terrorizzati dalle scariche di fucileria, s'erano rintanati dentro una sbilenca coniglieria costruita sul retro del casello. Il militare li scovò e brevemente confabulò con loro; rassicurati, questi tornarono al casello, dove porsero al militare un foglio spiegazzato da cui risultava il passaggio, di lì a qualche ora (salvo ritardi) di un treno; non quello dei turisti in viaggio tra Assuan e Luxor con vagoni letto e carrozze ristorante, ma uno per i locali, sul quale il casellante aveva facoltà di imporre uno stop, agitando la bandiera di servizio.

Così accadde, ma prima di questo, la giornata ebbe un finale imprevedibile.

Nella lunga sonnacchiosa attesa accanto ai binari, uno di noi, allontanatosi, tornò al casello suggerendoci di proporre al ferroviere e a sua moglie di cucinarci due o tre coniglietti fra i tanti rinchiusi nelle gabbie. Si sarebbe placata la nostra fame e sarebbero trascorse meglio le ore mancati all'arrivo del treno…

Superammo l'iniziale incomprensione, direi l'ostilità, dell'allevatore e della moglie, convincendoli entrambi con l'esibizione di stropicciati foglietti di carta moneta egiziana. Concludendo così l'avventura davanti a una larga padella dove cipolle e patate vennero perfettamente cucinate assieme a pezzetti di coniglio.

Inimmaginabile, a mio avviso, una miglior conclusione per un naufragio sfiorato e una fucilazione evitata.

L'harem di Zinder

A proposito di tradizioni e barriere, posso vantarmi di raccontare la visita in un harem; non sono il solo ad aver avuto questo privilegio, ma certamente uno dei pochi. E per di più, aggiungo, non un harem qualunque, ma quello di un ricco sultano.

La sua reggia non sorgeva in Arabia, ma a Zinder, Nigeria, nell'Africa profondamente musulmana ma non integralista come regni e principati del Medio Oriente.

 

Nell'harem del sultano di Zinder, non entrai con un sotterfugio, come in certi romanzi d'avventura, ma per un lieve tamponamento tra un vecchio gippone, impiegato per le riprese filmate d'una cerimonia a Zinder, e la Mercedes nera (vecchia, ma tenuta perfettamente) dall'autorevole Mohamed ben Adjlimman etc. etc., il nobile più nobile di quell'antica città.

Nel caos multicolore di una piazza dove avanzavamo a fatica, per tornare all'alberghetto dove alloggiavamo, la Mercedes davanti a noi si bloccò per evitare un cammello e noi la tamponammo. Balzato a terra dicendomi pronto a pagare il lieve danno, venni preceduto dall'agitarsi di una mano sporgente dal finestrino dell'auto investita. Subito dopo s'affacciò anche il passeggero, da tutti riconosciuto con inchini e alte grida: era il Sultano della città. Sorridente, ripete il segno: non dovevo preoccuparmi.

L'operatore approfittava del trambusto per puntare sul sultano la cinepresa, ed io corsi per bloccarlo. Ma Sua Altezza, si esibì in un secondo largo sorriso, e con perfetto accento transalpino: "Venez me voir au Palais!" disse ad alta voce.

 

L'indomani alle dieci in punto mi presentai al Corpo di Guardia del Palazzo e fui ammesso alla Residenza. Prima stupita sensazione fu il numero di bambini venutici incontro correndo; e rimasti intorno a noi in ogni cortile e per ogni corridoio del Palazzo, in un dedalo di ambienti dal disegno e dall'architettura assolutamente irrazionale, dove sembrava impossibile non perdersi. Quando il Sultano apparve, dopo i reciproci formali saluti, abbandonò ogni ufficialità e prese a guidarci nell'immensa costruzione. Indicandomene le mura, mi raccontò della sua nascita, un pezzo alla volta; stanze, cortili e corridoi si erano aggiunti col moltiplicarsi delle mogli, quelle dei suoi predecessori e poi delle sue. Al momento ne possedeva novanta, tra giovani e vecchie, e dato il numero spesso non ricordava bene il percorso per andare dall'appartamento di una a quello di un'altra.

"Come faranno in Arabia certi principi ad avere duecento o trecento mogli!" sospirò. "E' che loro sono ricchi, hanno il petrolio… possono mantenerle bene, con servizi e capricci, avere tutti i figli che desiderano."

Approfittai per chiedergli una precisazione sui tanti bambini che ci seguivano.

"Questi sono solo i piccoli" mi rispose. "I più grandi o sono già nell'esercito o in Francia a studiare." Sembrava divertirsi a soddisfare le mie curiosità, mi parlò della sua vita privata, della sua autorità nel paese ("solamente religiosa" precisò). Intanto giungemmo ad un ultimo cortile, fiorito e molto fresco. "Voilà mon harem!" aveva esclamato introducendoci e superando uno stretto portone.

I bambini erano intanto diventati un esercito chiassoso; e quando grida e risate divennero eccessive, Papà-Sultano avanzò minaccioso verso di loro agitando la lunga mazza d'argento sempre stretta nelle sue mani. E gridò un fiume di parole; di sicuro effetto, perché la figliolanza tacque e ordinatamente sedette a ridosso dei muri.

A quel punto apparvero due, cinque, poi altre tre o quattro donne. Nessuna molto giovane, tutte silenziose. Lui, con un gesto, invitò l'operatore a filmarle e rivolgendosi a me: "Qui vivono non solo le mie donne; ma anche quelle di miei fratelli e di miei parenti prossimi già morti. Ogni musulmano deve prendersi carico delle donne di famiglia rimaste sole al mondo. Le più vecchie sorvegliano le più giovani e tutte insieme sorvegliano i figli, gioia della casa."

Mi fissava, e mi sembrò quello il momento per domandargli la personale opinione sulla poligamia.

"Per noi musulmani è tradizione sacra, consigliata dal Profeta. Abolirla è impossibile; se io ordinassi al mio popolo, via le mogli in più, tenetene una sola, cosa accadrebbe alle ripudiate? Le più anziane non troverebbero altro marito, né le famiglie riprenderebbero in casa le giovani. Le prime morirebbero di fame, le seconde sarebbero costrette a prostituirsi."

Prima di una mia nuova domanda, fece l'inattesa proposta di presentarmi le mogli più giovani. Aprì un'ennesima porticina di legno e m'introdusse ad altre stanze affacciate a un ennesimo cortile. Apparvero alcune ragazze, come le più anziane anche queste appartenevano alle varie etnie sparse nel territorio nigeriano. Non parevano né imbarazzate, né sorprese, non ci guardavano; gli occhi fissi sulla figura del Sultano, come se attendessero un segno, un ordine. Alcune dai seni scoperti, esibiti con un certo orgoglio; per non dire sfrontatezza, almeno da un punto di vista occidentale.

Accanto a loro, s'affacciarono agli usci altri bambini, alcuni molto piccoli.

Fummo infine, nel cortile centrale del palazzo, dove s'affacciavano le stanze della moglie più giovane; l'unica dell'harem che non ci venne presentata. Lui si limitò a indicarci le sue finestre. Lei da qualche fessura tra le bianche persiane certamente ci guardava; sentivo la sua presenza, una sensazione curiosa, sottilmente eccitante.

Il Sultano sorrideva, immobile ed i bambini iniziarono a cantare. Sommessi prima, poi squillanti, senza freni, un ritornello ripetuto, "Wharin-ghidà… Wharin-ghidà…". Era il nome della sposa preferita, ovvero, "Profumo della casa".

Appena la nenia cessò, da una delle finestre sul cortile mi sembrò venisse una sommessa risata.

 

Il gesto di ospitalità del Sultano si ripeté l'indomani con un invito nella casa d'un ricco signore di Zinder. Il capo della comunità dei padroni d'armenti.

Anche lui possedeva un harem, non mi invitò a visitarlo ma mi presentò le cinque mogli. Sedute in un cortile alberato, due di loro vestivano con un semplice costume a righe, altre tre, coperte da stoffe blu-profondo, ostentavano pesanti monili d'argento, collane e bracciali, spille e amuleti; il più grande, a forma di croce traforata al centro, lo riconobbi come simbolo delle famiglie tuareg.

Nessuna sorrideva né cambiava espressione del volto, dipinto con un curioso cerone giallo, sul quale un secondo strato di pittura disegnava arabeschi rossi e blu attorno agli occhi e sul naso.

Il loro marito e signore disse: "Vedete, queste mie spose, sono tuareg e peuls, abituate a muoversi nel deserto. Solo perché mi amano molto hanno accettato di vivere tra le mura del mio palazzo, in un mondo così piccolo, senza orizzonte. Loro hanno rinunciato alla vita nel deserto per restare con me. Per questo non desidero altre donne."

Un treno molto affollato

Citare un treno mi porta, dopo queste divagazioni, all'episodio con cui vorrei terminare questo libro. Riguarda un percorso Milano-Roma.

Includere il ricordo di un simile viaggio in un contesto di "avventure", potrebbe giustamente venir considerato uno sbaglio; non, però, se ne preciso la data: il settembre 1945. Quando sulle linee ferroviarie italiane appena (e solo in parte) riparate dai danni della guerra conclusa da pochi mesi, muovevano primi treni; rari e lentissimi, con carri bestiame alternati a qualche carrozza passeggeri.

Primi convogli che andavano dal nord a Roma via Ancona; di lì tagliavano l'Appennino dove le distruzioni di ponti e gallerie erano state minori rispetto a quelle del nord, sulla disastrata linea diretta via Bologna-Firenze, tra i monti e le valli, teatro sino a pochi mesi prima teatro della combattuta battaglia della "linea Gotica".

 

Tornata la pace, nell'incertezza sui tempi necessari ad iscrivermi in un liceo della capitale, avevo ottenuto il permesso di partire da Milano per Roma prima del resto della famiglia; rassicurando i parenti sulla sicurezza delle rinate "Ferrovie dello Stato".

In realtà i servizi erano ancora sconvolti, serviti da rari convogli ferroviari di lunghezza spropositata nei quali si stipava una quantità di passeggeri, i quali dovevano sopportare non solo ore e ore di lentissimo andare, ma anche interminabili tempi di sosta per chissà quali problemi sulle linee. Se lo stop coincideva con l'arresto in una stazione, si poteva tentare di farsi largo tra barriere di corpi e tra bagagli accatastati, riuscendo a scendere a terra; per bere ad una fontanella, se ne funzionava.

Ebbi quest'occasione alla sosta in Ancona. Dal treno immobile vidi, tra le rovine della stazione, che ne zampillava una e dal posto faticosamente conquistato alla partenza da Milano sgusciai a terra e la raggiunsi, assieme a molti altri assetati. Appena venne il mio turno, bevetti il più possibile e tornai al treno dove, nel frattempo, i vagoni s'erano riempiti di molti altri passeggeri. Tanto da rendermi impossibile il tentativo di reimbarcarmi. Disperato, percorsi correndo tutto il marciapiede mentre il convoglio iniziava lentissimamente a muoversi.

Durante la sosta le locomotive erano state sostituite da due locomotori elettrici, in testa e in coda; per evitare che il fumo delle citate locomotive avvelenasse i passeggeri stipati come sardine; erano lunghe e numerose le gallerie da attraversare lungo il tratto appenninico tra la costa adriatica e Roma. Scomparso il timore di restar intossicati, ai passeggeri disposti ad affrontare il viaggio all'esterno dei vagoni, si rivelavano disponibili sistemazioni molto particolari: in piedi, appollaiati sui respingenti che, due a due, tenevano distaccati i vagoni uno dall'altro.

Dopo un istante di incertezza, forse di paura, mi decisi a balzare sull'unico ancora libero. Mi trovai accanto a tre altri passeggeri che sarebbero stati miei compagni nel seguito di quel viaggio; di fronte l'uno all'altro, ognuno su un respingente, s'aggrappavano a vari appigli; e così feci anch'io, cercando di reggermi saldo, le mani ben strette alle sporgenze che parevano sicure.

Al primo muoversi del treno, quella sistemazione non sembrava creare problemi; ma non tardai ad accorgermi del contrario. Appena il convoglio prese velocità e lo scuotimento crebbe, l'ostentata spavalderia fu messa a dura prova; soprattutto nei lunghi minuti di paura seguiti all'ingresso nella prima galleria. In quel buio improvviso, il frastuono sembrava diventare palpabile, portato da ventate di odori soffocanti.

Dopo la prima, altre gallerie, e altri momenti seguirono, sempre fastidiosi e, tuttavia, meno angosciosi perché, come si suol dire da giovani, a tutto ci si abitua. Anche al peggio.

Fortunatamente quel tenersi con tutta la forza delle mani agli appigli sporgenti dai vagoni non fu continuo, per ore, ma interrotto da ripetuti arresti del treno, sia nelle piccole stazioni sulla linea, sia in aperta campagna, forse per improvvise cadute della corrente che alimentava i locomotori. A quelle fermate la possibilità di sgranchire le gambe e l'improvviso silenzio e l'aria fresca, pulita, ricaricavano il morale; per di più un salto a terra, rispetto a chi era ammucchiato nei vagoni, offriva la tranquillità di non rischiare di perdere il posto.

Caratteristica di quella sistemazione tra due vagoni era il trovarsi un compagno di viaggio faccia a faccia, sull'opposto respingente; in piedi, afferrato anche lui ad appigli sporgenti.

Con il treno in movimento, il rumore assordante impediva ogni conversazione, ma nei continui, prolungati arresti del convoglio, era possibile scambiare qualche parola con il dirimpettaio. Non però con chi avevo di fronte io; nelle soste restava taciturno, la testa abbassata, gli occhi socchiusi. Data la mia timidezza, rispettavo quel silenzio tacendo anch'io, benché mi incuriosisse il suo vestito militare senza mostrine, il volto così pallido, la magrezza impressionante delle mani. Forti, però, nello stringersi ai sostegni offerti dalle sporgenze del vagone.

Un reduce di guerra? un ex prigioniero?

A un certo punto, il treno non si fermò per un'ennesima volta con estrema lentezza, preceduto da reiterati fischi dei locomotori di coda e di testa. Fummo invece sorpresi da un arresto molto brusco e dal conseguente cozzare dei respingenti uno nell'altro. Non so come, riuscimmo a non cadere, aiutandoci a vicenda nell'afferrare spasmodicamente i vari appigli.

Quando il treno si rimise in moto, notai che gli occhi del mio dirimpettaio non erano occhi chiusi o socchiusi, come sino a quel momento del viaggio. Ma aperti, rivolti verso il basso. Osservava i binari scorrere? o cosa, sotto di noi?

No, fissava le mie scarpe.

Enormi, acquistate da mia madre a un mercatino di roba rubata in chissà quale magazzino militare; con una suola chiodata che molto debordava dalle mie misure.

Quando in un'ennesima occasione il treno rallentò e si arrestò, nel silenzio che seguì, lui alzò la testa, fissandomi. Con una mano puntata verso il basso a voce alta esclamò: "Se t'ciapet 'n'acident, t'manet in pié!." Si mise a ridere e continuando a fissarmi, aggiunse: "Piedi da strada tanta, zuanot!."

Un fischio prolungato, uno scossone e il treno ripartì.

La "strada tanta" m'attendeva.