"La Nuova Ferrara"
Febbraio 2007

Folco Quilici, abissi senza segreti
Viaggiatore straordinario
Inventiva stile Jules Verne
Un'operosità grandiosa fra cinema, tv e libri

Tutto partì da Moby Dick

di Bruna Bignozzi

 

Una voce speciale. Una voce chiara, senza inflessioni dialettali, assai diversa da quelle che ti fanno subito pensare -questo è un romano oppure un emiliano o un siciliano-.
Una voce armoniosa, gradevolmente studiata, con un tono da signore cittadino del mondo. Nondimeno, allo stesso tempo, era una voce che si palesava familiare, specie a noi fruitori di documentari e di lungometraggi, perché risuonava con un timbro inconfondibile, quello, appunto, di Folco Quilici.

Così, l'opera con la quale Folco Quilici ha aperto il suo ciclo di performance (poteva essere altrimenti?) è stata Moby Dick.

Scoperta nel 1945, all'età di quindici anni, mentre era al mare in Liguria, ospite di uno zio, è divenuta, in un certo senso, la "spinta propulsiva" della sua futura scelta professionale. In vero, la copia presente nella libreria dello zio era in inglese, quindi di difficile lettura. Bisognava allora cercarne una tradotta in italiano.
Trovò solo un'antologia in cui si parlava di Moby Dick, ma non trovò Moby Dick. La versione in lingua italiana pareva introvabile. Forse (penso io) non era nemmeno in circolazione, anche se la bellissima traduzione di Cesare Pavese risaliva al 1932. Probabilmente non era stata diffusa, dato che gli scrittori americani erano invisi al regime fascista. Se poi si aggiunge che Pavese, nel 1935, era stato condannato al confino a Brancaleone Calabro perché trovato in possesso di alcune lettere compromettenti da recapitare ad una persona amica, allora non è troppo arbitrario ritenere che quella traduzione fosse stata bloccata.
In ogni modo, solo qualche anno dopo la fine della guerra, il giovane Folco ha potuto leggere in italiano l'opera che tanto l'incuriosiva e che subito l'ha conquistato con quell'incipit perentorio e sublime, calandolo, via via, dentro la grande avventura della caccia alla balena bianca. Un grande libro, un grande amore che lo accompagnerà, più tardi negli anni, nei viaggi per tutti i mari del nostro pianeta, durante i quali, a differenza del capitano Achab e dei marinai del Pequod, egli s'immergerà nel profondo delle acque per carpirne i segreti
e divulgarli attraverso fotografie, film e libri. Inizierà quel lavoro all'età di diciannove anni, nel 1949, con la realizzazione del primo cortometraggio Pinne e arpioni (il titolo dice già dell'argomento) per poi passare ai lungometraggi di cui citiamo solo alcuni titoli: Ti-koyo e il suo pescecane (Premio Spettacolo cultura dell'Unesco e Premio San Fedele nel 1962); Oceano (Premio speciale al festival internazionale delle Nazioni di Taormina del 1971 e David di Donatello nel 1972); Fratello Mare (Primo premio al festival Internacional del mar di Cartagena e premio internazionale al festival di Teheran nel 1997). Ora, dopo tante avventure in mare (e non solo) Folco Quilici lavora per la salvezza delle
balene che sono in pericolo d'estinzione. Collabora con l'équipe che opera nel mar ligure dove è stato creato un santuario per la protezione di questi grandi mammiferi e di molti altri cetacei. Là vengono registrati anche i suoni emessi dalle balene sperando di poter giungere a decifrarne il linguaggio perché si è scoperto che le balene si parlano a distanza.

* * *

Se l'opera tout court della prima giovinezza di Folco Quilici è stata il grande romanzo di Herman Melville, quella della seconda, invece, è stata un trattato storico-geografico, antropologico- sociologico di Fernand Braudel, ovvero La Méditerranée à l'epoque de Philippe II. Un saggio che interpreta la storia in modo nuovo mettendo in luce "il rapporto profondo d'interconnessione che collegava il Mediterraneo spagnolo con il Nuovo Mondo e con la civiltà islamica e, ancor più, dell'inseparabilità tra le vicende storiche e il sostrato geografico cui erano inerenti."(Ilaria Caputi, Il Cinema di Folco Quilici; i quaderni di Bianco & Nero; 2000; distribuzione Marsilio).

Difatti, Quilici si era accostato a quel corposo saggio (tre volumi), dopo la conclusione degli studi alla Scuola sperimentale di Cinema, perché intendeva lavorare sull'ambiente marino in senso lato, andando oltre il semplice documentario.
Sperava di trovare una chiave di lettura che mettesse in collegamento il mare e la sua vita con l'ambiente circostante e la cultura delle popolazioni indigene. Così, nel periodo 1952-54, egli realizza, insieme ad un'équipe di tecnici e di esperti in diverse discipline, Sesto Continente, un lungometraggio di 90' che nel 1955 riceverà il primo premio al Festival di Mar del Plata. Ma solo verso la fine degli anni Sessanta si verificherà un fatto straordinario. Un dirigente della Rai chiede al nostro regista di realizzare due lavori in coproduzione italo-francese, in stretta collaborazione con il direttore della prestigiosa rivista Annales, ovvero Fernand Braudel. Nascono così Civiltà del Mediterraneo, trasmesso in tredici episodi di 60' ca., e L'uomo europeo, un programma in otto parti di 60' ca., a cui ne sono state aggiunte altre due della stessa durata, dal titolo Una Europa.
Tuttavia, la cosa più importante, di questa coproduzione italo-francese è stata, forse, la grande amicizia che è nata tra i due diversi specialisti, il regista e lo storico, anche se Quilici definisce Braudel "la sua guida intellettuale, l'uomo cui si sarebbe sempre riferito con devozione come suo -maestro-e amico". (ibidem)
Oltre a ciò, tutta la produzione di Quilici, ricchissima e variegata, è, come afferma Tullio Kezich, frutto di viaggi straordinari, spesso pericolosi, "degni di competere con la sfrenata inventiva di Jules Verne". La forte curiosità di conoscere ne ha fatto "un indefesso scorridore di territori a rischio... un pellegrino esposto a continue emozioni e paure... [capace di] un'operosità che dal cinema e dalla televisione spazia su giornalismo, letteratura, fotografia, storia, antropologia, archeologia e campi contigui...[tanto che] l'ormai frusto aggettivo multimediale non basta a connotare un tale immenso accumulo di lavoro sul campo, né a individuarne tutti i collegamenti e le motivazioni profonde".
Il libro più importante della terza giovinezza di Folco Quilici è stato Il giardino dei Finzi Contini di Giorgio Bassani: un romanzo che l'ha ricondotto agli anni dell'infanzia trascorsa a Ferrara, sua città natale, da cui, però, se n'è andato all'età di quindici anni anni: dapprima sfollato in val Brembana, in provincia di Bergamo, poi, finita la guerra, a Roma.

La sua casa ferrarese, o meglio la sua villa liberty (in viale Cavour n 40, secondo la numerazione d'allora) era stata colpita dalle bombe. Suo padre, Nello Quilici, era morto già nel 1940 durante l'abbattimento dell'aereo di Italo Balbo. E la famiglia non aveva radici ferraresi, bensì toscane. Ma, oltre a tutto questo, la mutata situazione politica consigliava (secondo me) di lasciare Ferrara anche se suo padre, il noto direttore del quotidiano Il Corriere Padano di cui era editore Balbo stesso, era ed è, a tutt'oggi, considerato persona dabbene.

Scrive Alessandro Roveri nella Premessa al suo stesso saggio: Tutta la verità su Quilici, Balbo e le leggi razziali (Este-Edition; Ferrara 2006; pp. 126): "In questo libro si parla degli ultimi anni della vita di Nello Quilici, uno dei tanti galantuomini che giudicarono l'amor di patria come ideale coincidente, dopo la grande guerra, con l'adesione al fascismo sotto la guida del carismatico Benito Mussolini e, a Ferrara, Italo Balbo, organizzatore della violenza contro i –nemici della patria, i rossi, i comunisti-.

L'amicizia personale Quilici-Balbo fece il resto, e impedì a Quilici di rendersi conto che il fascismo, benché sotto le spoglie dell'operetta, era barbarie, antirisorgimento, totalitarismo". Tuttavia, Nello Quilici era contrario alle leggi razziali emanate da Mussolini nel 1938. Così, tra l'altro, fu sostegno e conforto a un giovane ebreo ferrarese, Giorgio Bassani, espulso dall'università di Bologna, dalla biblioteca Ariostea di Ferrara e perfino dal club del tennis Marfisa. Quilici, infatti, non solo continuò a pubblicare i suoi elzeviri sulla prestigiosa pagina culturale del Padano (dove scriveva pure il noto antifascista Francesco Viviani) ma lo introdusse anche tra gli amici che frequentavano la sua casa.
Ad onor del vero, era contrario alle leggi razziali anche Italo Balbo che aveva perfino sfidato le consegne del duce per proteggere il suo grande amico ebreo, l'avvocato Renzo Ravenna, che egli stesso aveva fatto nominare podestà di Ferrara nel 1926 (v. Il podestà ebreo. La storia di Renzo Ravenna tra fascismo e leggi razziali di Ilaria Pavan; Editori Laterza; Roma-Bari; 2006; pp.298). Anche se ben diverso era stato il Balbo fuor dai rapporti amicali, il Balbo organizzatore del barbaro squadrismo ferrarese dei primi anni Venti (v. Balbo di Giorgio Rochat; Utet editrice; 1986; pp. 439).


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Dopo molti anni di assenza, trascorsi "in giro" per il globo terracqueo, Folco Quilici riscopre, dunque, Ferrara come "la sua città" grazie al suddetto romanzo di Bassani (1964), ma la riscopre soprattutto grazie a un suo stesso lavoro: Ferrara dall'alto (1969). L'elicottero che volteggiava sopra la città gli fa rivisitare i bei luoghi della sua infanzia: la sua casa, il suo giardino, la mole del castello quasi di fronte, la fabbrica del duomo, la sua scuola elementare, le strade larghe e lunghe dell'Addizione d'Ercole, il parco Massari e via dicendo. L'emozione lo riconduce indietro nel tempo mentre annulla il distacco affettivo che gli aveva fatto diventare Ferrara "una città qualsiasi". Incominciano allora a schiudersi alcuni comparti del registro della memoria.

Ed eccolo ragazzino che percorre le vie cittadine in braghe corte mentre prende un bisquit col gelato dall'uomo col carretto a pedali e drago di cartapesta. O eccolo a pattinare in piazza Ariostea, in "knickerbockers allacciati sotto il
ginocchio dove arrivavano le grosse calze di lana". Oppure, costretto a una manifestazione in piazza Castello, in divisa da balilla: abbigliamento che aborriva e che rifiutava quasi sempre di indossare per la scuola, dove subiva i rimbrotti degli/delle insegnanti più ligi/e al regime. Tra questi, la più severa, era la professoressa A. M. che lo apostrofava con una domanda indiretta: "Perché il figlio di Quilici non indossa la divisa?". Quel tono e quella forma sarcastica lo ferivano, soprattutto perché non lo riconoscevano nella sua personale identità. Una volta, all'uscita dalla scuola, l'insegnante lo fece addirittura picchiare da un ragazzo più grande perché era stata contraddetta sull'andamento della guerra, proprio da lui, "il figlio di Quilici" che in casa aveva sentito ben altre notizie.
Tuttavia, molti anni dopo quello squallido episodio, quando Folco Quilici era già
Quilici, A. M. che ricopriva una carica istituzionale nella scuola, invitò il suo ex alunno a Ferrara, per un'iniziativa culturale. Lui le rispose che il naso gli sanguinava ancora. In seguito si è detto pentito. Ma la violenza subita, si sa, resta difficile da dimenticare, per tutti. La rivisitazione del centro storico di Ferrara gli riporta alla mente Luchino Visconti che girava alcune scene del film Ossessione (1943) e un tecnico che buttò via un pezzo di pellicola che lui subito raccolse. A casa, la pulì dalle immagini e insieme ad un compagno vi disegnò sopra "un film a colori" che divenne motivo d'intrattenimento degli amici. Di quel "film" ne parlarono perfino i grandi, a tavola, tra i commensali di rango che non
mancavano mai. Un microcosmo affettivo, improvvisamente spezzato dalla morte del padre. Una morte doppiamente tragica per le due contrastanti versioni sulle cause dell'incidente, entrambe mai obiettivamente provate. La versione ufficiale sosteneva che l'aereo di Italo Balbo su cui stava anche Nello Quilici era stato abbattuto nel cielo di Tobruk per un errore della contraerea italiana che l'aveva scambiato per un aereo inglese. Al contrario, c'era chi riteneva che quell'aereo fosse stato abbattuto intenzionalmente, su ordine di Mussolini che, notoriamente, detestava Balbo contrario all'alleanza con la Germania; ma che, soprattutto, invidiava per la fama conquistata con gli spettacolari voli transatlantici. Quale la verità vera?

Oltre sessant'anni dopo quell'accaduto, Folco Quilici ha cercato di interpretarne
personalmente la dinamica. Si è recato, tra mille difficoltà, fin sul punto preciso da cui la contraerea italiana ha sparato.

E ha poi raccontato, dettagliatamente, quella sua affannosa e difficile ricerca nel libro: Tobruk 1940. La vera fine di Italo Balbo (ed. Le Scie; Mondadori; 2004; pp.261). Ma, nell'ultima parte del volume, egli afferma di accettare la tesi dello storico dell'aviazione Gregory Alegi secondo cui l'aereo di Balbo è stato abbattuto per puro errore. Ma a me, lettrice comune del libro appena citato, è parso che all'Autore siano invece rimasti irrisolti vari interrogativi. Ho forse frainteso il messaggio tra le righe?


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Per concludere, aggiungo che i rimanenti due libri, tra i cinque della suddetta trasmissione radiofonica, sono: Memorie di un traditore di Enzo Russo e Le uova del drago di Pietrangelo Buttafuoco. E ricordo che i fratelli Quilici, Folco
e Vieri, hanno donato alla biblioteca Ariostea tremilacinquecento
libri del padre che ora costituiscono il "Fondo Quilici" che è a disposizione dei lettori.


di Bruna Bignozzi