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Presentazione del libro di Folco Quilici
L'ABISSO DI HATUTU
di Giovanni Russo
Il mio primo incontro con Folco Quilici non
ha riguardato il mito di lui come grande viaggiatore alla scoperta
di mondi ancora sconosciuti (il suo nome era associato a quello
dei grandi esploratori che avevano affascinato la mia fantasia da
adolescente) ma il mio Sud, la Calabria, la Lucania, la Campania
su cui avevo scritto inchieste per il Corriere della Sera e libri.
Fu Folco a chiedermi di citare alcuni passi di un mio testo se non
sbaglio sulla Calabria e la Basilicata che egli riportò in
uno dei suoi libri fotografici insieme alle sue considerazioni.
Sfogliando quel libro capii che uno dei segreti del talento di Folco
Quilici era quello di saper scegliere le sue immagini e tradurle
in un discorso sicché le parole ne sono più che la
descrizione il completamento.
L'occhio di Folco Quilici sa rendere il paesaggio parlante come
in un racconto. Queste doti, accompagnate dalla vocazione molto
rara a mio parere tra gli uomini di cultura italiana, di viaggiatore
alla ricerca di ambienti e personaggi da scoprire, hanno fatto si
che Folco Quilici passasse con sorprendente facilità da un
genere a un altro e cioè sappia usare con la stessa maestria
e abilità la macchina da presa cinematografica, la macchina
fotografica e la macchina da scrivere. Ma soprattutto in tutte queste
attività egli porta un patrimonio culturale che si nutre
non solo di studi e di letture di grandi scrittori ma anche del
rapporto diretto con la realtà complessa del nostro pianeta
soprattutto con quella parte sconosciuta e ancora misteriosa e spesso
inesplorata del globo che è il mare.
Ai suoi numerosissimi documentari a carattere culturale hanno collaborato
alcuni tra i migliori scrittori italiani, da Flaiano a Calvino da
Sciascia a Silone a Piovene e a Comisso. Nelle sue "immersioni"
oltre che nei mari, nella storia antica dei Greci e dei Fenici o
nell'arte dal Barocco a Gauguin e nella grande serie di film sul
Mediterraneo e sull'uomo europeo ha avuto collaboratori tra i maggiori
studiosi del nostro tempo, Fernand Braudel, Sabatino Moscati, George
Vallet l'archeologo francese così legato al mondo classico
e a Roma e consulenze di Levi-Strauss, e di Leroy-Gouran.
Questi accenni a volo d'uccello ci servono per capire anche le caratteristiche
di Folco Quilici come scrittore perché ci illuminano sul
modo come egli fonde fantasia e realtà nei suoi libri e soprattutto
riesce a tenere avvinto il lettore sia per il modo con cui svolge
il tema del racconto sia per gli sfondi che sono quelli grandiosi
che egli ben conosce dei paesaggi esotici e del mare.
Col tempo Folco Quilici è diventato sempre più scrittore
anche se gli strumenti della macchina da presa e di quella fotografica
sono sempre al centro dei suoi interessi. Essi gli hanno insegnato
anche a montare un testo letterario in modo avvincente e offrono
al lettore la sensazione di essere anche lui, come l'autore, come
i suoi personaggi, presente negli ambienti che descrive, anche quelli
meno frequentati persino in quest'epoca di sfrenato turismo.
Ne "L'abisso di Hatutu" la sapienza del regista e le conoscenze
di viaggiatore eccezionale e in più la sua profonda e vera
passione, quella per il mare, una passione che è rappresentata
dal fascino del mistero degli oceani che è anche il fascino
dell'ignoto, hanno trovato una delle sue più efficaci espressioni
letterarie.
Questo romanzo, rispetto ad altri suoi precedenti come "Alta
Profondità" e "Cielo Verde", si stacca anche
da ogni ricordo per così dire documentaristico per entrare
nel territorio della costruzione narrativa dove la fantasia rende
verosimile persino il suo misterioso calamaro gigante, il mai visto
Architeuthis, con il quale impariamo a convivere e che è
l'inquietante protagonista del libro. Tutto ciò è
sostenuto dalla preparazione scientifica dell'autore che conosce
perfettamente le caratteristiche, le dimensioni, la vita di questo
gigante marino che, benché non sia mai stato possibile fotografarlo
veramente esiste. Proprio ieri notte ad una trasmissione televisiva
di Piero Angela si sono visti i corpi di due architeuthis giovani
trovati morti sulle spiagge americane ed è stato intervistato
uno scienziato che, come se avesse preso ispirazione dal romanzo
di Folco Quilici, sta organizzando una spedizione negli abissi marini
per cercare di sorprenderlo nel suo ambiente. E questo conferma
come nell'opera di Quilici ci sia sempre il rapporto tra realtà
e fantasia.
Nei suoi libri precedenti Quilici aveva già dimostrato di
saper disegnare nei loro caratteri i personaggi e alternare colpi
di scena come nei migliori racconti d'avventura, sullo sfondo sempre
di un mistero. Ma ne "L'abisso di Hatutu" egli riesce
a trovare un vero equilibrio tra l'intreccio della storia degna
di un giallo e la straordinaria poesia della Natura.
La trama è degna di uno scrittore inglese di gialli come
Agata Christie. Un miliardario neozelandese di origine maori, Sir
William Faber Niau - re del tonno in scatola - a più di 80
anni è paralizzato su di una sedia a rotelle, e prima di
morire vuole legare il proprio nome a un'impresa scientifica; scovare,
fotografare, raccogliere tutti i dati su di un calamaro gigantesco,
l'architeuthis rex, della cui esistenza ci sono prove ma che nessuno
è mai riuscito ad avvicinare.
Sir William ingaggia due archeologi marini, Marco Arnei italiano
e Sarah Morasky e il massimo studioso di cetacei, il tedesco Wolfgang
Brailich, con i quali s'imbarca su un veliero per Hatutu. Nello
stesso tempo un concorrente di William, altro imprenditore di tonno
in scatola, cerca di precederlo ma con lo scopo addirittura di catturare
il mostro. Tra i due s'inseriscono degli eco-terroristi che vogliono
con l'alibi di difendere l'equilibrio ecologico, farsi pubblicità
anche a costo di vite umane. Tutti costoro si dirigono verso l'isola
di Hatutu dove c'è la massima profondità del Pacifico
nell'arcipelago delle Marchesi oltre Tahiti e le isole Tuhaumotu
e Paumotu. Sono nomi che apprendo qui dal libro ma che Quilici ha
visto direttamente, come si capisce anche dalle descrizioni che
possono essere ispirate solo da una personale esperienza.
Tra questi tre gruppi s'intreccia una serie di contrasti che crea
una grande suspence nel lettore. Ma la parte certo più affascinante
del libro è quella che riguarda le immersioni del minisub,
il "Nautilus" con il quale i due scienziati e sir William,
nonostante le sue condizioni fisiche e l'età, s'inabissano
per fotografare e riprendere l'architeuthis rex. Per restare fedele
al giallo non racconterò lo scioglimento delle trama che
si svolge tutt'intorno alla lotta per rintracciare da una parte
e per catturare dall'altra l'architeuthis rex e sulle iniziative
criminali degli eco-terroristi, uno dei quali ex agente dei servizi
speciali irlandesi contro l'IRA a Dublino mette in atto azioni di
sabotaggio. Va sottolineata anche la precisione con cui vengono
descritti gli strumenti più avanzati di cui dispone il Nautilus
e i modernissimi sistemi istallati sul veliero sopra cui il Nautilus
è imbarcato. Tutto ciò che la tecnologia offre è
utilizzato compreso Internet dai protagonisti dell'avventura. Il
Nautilus è dotato oltre tutto da particolari iniettori. Gli
elicotteri di cui si serve l'imprenditore paralitico sono biturbina.
C'è una folla di personaggi tra cui ce ne sono alcuni singolarissimi
come il giapponese Okiro Saki (una vera trovata dell'autore) che
è ridotto a vivere in una tuta per astronauti e che si associa
agli eco-terroristi perché la sua vita, il suo corpo, è
stato distrutto nel tentativo di chiudere una falla verificatasi
in una centrale nucleare in Giappone. Debole, ingenuo e visionario,
si lascia strumentalizzare con l'illusione di diventare il capo
spirituale di quello che crede un gruppo di ecologisti mossi da
nobili ideali.
Tutti gli altri protagonisti, dai due archeologi marini al comandante
del catamarano degli eco-terroristi Claude il cui corpo è
tatuato dalla bocca all'inguine da un lungo serpente avvolgente,
sono delineati con sapienza psicologica, come è ben tratteggiato
l'antagonista di Sir William, il tycoon Frank Simon che vuole catturare
l'architeuthis rex.
Nel racconto si alternano anche alcune descrizioni del calamaro
gigante ed è particolarmente suggestiva a metà del
libro quella che riguarda la battaglia tra un capodoglio e l'architeuthis
rex che finisce con la vittoria di questo. Ma c'è anche uno
spazio per l'ironia come quello che riguarda il sistema per vincere
il mal di mare di cui è vittima lo scienziato tedesco fatto
rotolare in una specie di pallone di plastica che gli sconvolge
lo stomaco per lungo tempo e ha l'effetto proprio contrario.
C'è nel libro poi anche come un racconto che si svolge come
un commento musicale e che è quello che riguarda la vita,
i costumi, le leggende del popolo Maori, antico abitante della Polinesia
e un prezioso e affascinante ritratto dei loro miti, delle loro
consuetudini, delle loro leggende.
A forza di colpi di scena (come il tentativo di sabotaggio da parte
degli eco-terroristi, che tentavano di collocare una carica di dinamite
sotto la chiglia del veliero, sventato da un simpatico e coraggiosissimo
tecnico sardo il quale rischia di morire per anossiemia), si arriva
alla scena centrale, quella in cui il vecchio William, Sarah, l'esperta
pilota israeliana del Nautilus e Marco lo studioso italiano, s'immergono
nelle profondità abissali e vedono d'improvviso comparire
il tanto sospirato architeuthis rex con il suo enorme occhio (mi
ricorda quello del Ciclope di Omero) e che riescono a fotografare
e a riprendere su nastro televisivo in un drammatico scontro che
rischia di farli morire nel minisub che era stato avvinto dai suoi
tentacoli.
La descrizione dell'architeuthis rex insieme a quelle degli abissi
marini o dei paesaggi sono molto poetiche. In queste pagine soprattutto
in quelle che descrivono i fondali marini e le pulsioni dell'architeuthis
c'è una grande maestria letteraria. Per esempio la descrizione
della notte a Hatutu:
"Dietro il non lontano profilo roccioso di Hatutu, il cielo
cominciava a risplendere di stelle. La luna all'ultimo quarto, ridotta
a una falce sottilissima, stava tramontando. Senza il suo chiarore,
le notti successive sarebbero state buie come la pece, anche se,
quando la luna manca, la volta stellata diventa un lucernario fosforescente,
nei Mari del Sud".
Alla fine del libro il lettore ha appreso anche il significato di
termini poco noti come: "faro voltaico", "biologia
bentonica", "cellule bioluminose", "transponder",
"solcometro", "assoni" o come "tesare"
e "alambardare". Splendida e drammatica la descrizione
dell'uragano nelle pagine finali.
Nelle descrizioni di valore pittorico c'è l'influenza artistica
della madre che è stata una delle pittrici notevoli del '900,
Mimì Buzzacchi, come la passione di reporter è ereditata
dal padre, Nello Quilici.
Ma è soprattutto quando parla del gigante marino, l'architeuthis
- il vero eroe del libro - che Folco Quilici riesce a sorprenderci,
perché si fa lui stesso architeuthis. Questo eroe simbolico,
così potente, così sfuggente, nato dalla fantasia
dell'autore ma quanto mai verosimile, si muove negli abissi da padrone
incontrastato, senza mai poter affiorare perché la diminuita
pressione dell'acqua ne renderebbe il sangue più fluido decretandone
la morte. Si muove quindi sul fondo, dominato da pulsioni elementari
come sesso, fame, paura. L'abbondanza di fibre nervose ne fanno
un essere intelligente, in grado di trarre vantaggio dalle esperienze
e di comunicarle tramite il grande occhio circolare, ai suoi simili.
Pagine bellissime, che estrapolate potrebbero finire tranquillamente
in un'antologia dedicata ai grandi scrittori italiani.
"Non conosceva la misura del tempo, non poteva quindi contare
quante volte fosse scampato al suo destino di preda, ma l'istinto
gli faceva capire di essere salvo per l'innata capacità di
anticipare l'aggressione. Era questo il suo bagaglio di esperienza.
A differenza di altri suoi simili che non erano riusciti a fuggire,
la sua abilità nell'evitare tanti attacchi gli aveva concesso
di vivere a lungo. E così le dimensioni del suo corpo erano
aumentate, negli anni. Era un colosso che aveva accumulato forza
ed esperienza sufficienti per evitare ogni attacco, in grado anche
di vincere il suo nemico, se con l'abbraccio dei suoi tentacoli,
riusciva a impedirgli la risalita in superficie (
) Aveva raggiunto
l'abisso dove il nemico non poteva avventurarsi. Sentì avvicinarsi
la distesa uniforme di viscida fanghiglia e cercò di starsene
al sicuro. Distese il suo grande corpo riprendendo la forma originaria,
i sensori sempre in allarme anche se aveva trovato un rifugio sicuro,
nel buio sconfinato di quel mondo d'acque". Pag. 24.
Folco Quilici si fa calamaro gigante, si fa squalo, si fa capodoglio.
A differenza di tanti documentari di Walt Disney sul mondo animale
- discutibili dal punto di vista scientifico perché vengono
attribuiti agli animali sentimenti propri dell'uomo - Quilici fa
vivere la fauna marina in universo suo proprio, senza alterarne
le caratteristiche, attribuendo loro pulsioni prettamente animali,
ne fa esseri così affascinanti da suscitare la nostra emozione,
la nostra commozione. Nella guerra fra l'uomo e il mostro marino,
la nostra simpatia è per il mostro, non per l'uomo. A proposito
di questo libro non si possono non fare i nomi di scrittori, senza
dubbio familiari al nostro autore, da quello di Giulio Verne, da
cui ha tratto anche il nome Nautilus per l'eccezionale batiscafo
che doveva essere usato per fotografare e riprendere televisivamente
il mostro sottomarino; ma c'è anche quello di Jack London
nel respiro avventuroso del personaggio principale, il miliardario
neozelandese di origine Maori. Quilici, raffinato lettore di rare
opere di ambiente marinaro, ha sentito la suggestione di due grandi
scrittori, appunto marinari, Herman Melville e Joseph Conrad. Nella
descrizione finale dell'uragano abbiamo sentito gli echi dell'autore
di Tifone mentre per così dire sotto traccia in tutto il
libro c'è l'insegnamento di Melville di cui l'autore dimostra
di avere appreso in pieno il grande insegnamento. Non per nulla
la citazione che apre il libro è stata tratta da "Moby
Dick". Ma come non pensare anche per Conrad alla "Linea
d'ombra" e sempre per Melville a "Billy Bud" e allo
splendido "Benito Cereno" il cui timoniere mi ha ricordato
certo non con gli stessi intenti quello di Punuà il fedele
polinesiano.
Come ha scritto in una recensione a "Cielo Verde" Giovanni
Pacchiano: "Non è facile trovare di questi tempi tanta
pienezza di narrazione né tanta felicità di scrittura,
uno stile colloquiale, senza forzature, affabilmente dimesso nel
romanzo del regista e viaggiatore Folco Quilici, che recupera, come
oggi è permesso alla sola letteratura, una visione lealmente
eroica della vita, rischio, azzardo, avventura, conflitto".
La forma del dialogo scelta per il racconto (quasi come la sceneggiatura
di un film) permette di avere uno stile incalzante, avvince il lettore.
Vorrei concludere con le parole del grande storico francese, Fernand
Braudel, fondatore dell'Ecole des archives che, nella prefazione
al libro "L'uomo europeo" che raccoglie le foto e le immagini
di Folco Quilici, così scrive: "Scrittore egli è
l'uomo delle spiegazioni, delle interrogazioni che indirizzano e
guidano le parole. E con quale brio: Folco Quilici scrive come un
romanziere di successo. Il lettore non corre certo il pericolo di
non voltare le pagine rapidamente e con grande piacere!".
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