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Prolusione in occasione dell'attribuzione a Folco Quilici della Laurea Honoris Causa.
Prof. Daniele Seragnoli

 

In occasione dell'attribuzione di Laurea Honoris Causa a Folco Quilici, all'Università di Ferrara il 13 marzo 2003, il Professor Daniele Seragnoli (Discipline dello Spettacolo) ha pronunciato questa prolusione.

Occorre iniziare con una domanda preliminare, anche se la risposta è scontata quanto problematica: è possibile racchiudere nel breve spazio di una presentazione un sapere enciclopedico, il lavoro e l'opera di un artista come Folco Quilici, viaggiatore insaziabile e poliedrico, e raccoglitore negli anni di migliaia e migliaia di immagini e di pagine?

Basterebbero due citazioni.

La prima, dello storico Fernand Braudel, che nel 1983 dichiarava: "Per accostarsi nel miglior modo all'opera di Folco Quilici è importante aver capito e ben capito il suo Autore. Scrittore, egli è l'uomo delle spiegazioni, delle interrogazioni che disciplinano e guidano le parole. [...] C'è bisogno di dire che egli è ancor più l'uomo delle immagini e da questo punto di vista, uno dei primi, dei più prestigiosi che vi siano nel mondo delle immagini che parlano, che traducono il discorso, che in esso si inseriscono con forza e vi esplodono come a piacimento; perciò un solo paragone si rivela valido per situare Folco Quilici, quello di un pianista dotato di grande padronanza tecnica: le note della mano sinistra si inseriscono nella serie delle note della mano destra, la mescolanza è la musica, la poesia avvincente di libro e film assieme".

La seconda citazione è la frase di apertura di un libro di Ilaria Caputi uscito nel 2000, la più recente monografia dedicata al cinema di Quilici: "è il cineasta italiano che ha maggiormente contribuito alla conoscenza e alla comprensione di altre culture nel nostro paese. Attraverso quasi cinquant'anni di inesausta attività professionale ha esplorato con la sua cinepresa tutti i continenti di questo pianeta, più il Sesto Continente, il regno sottomarino".

Basterebbe il dato quantitativo di questo cinquantennio di attività professionale per darne cognizione.

Un semplice elenco, per difetto:

  • i quattro cortometraggi dell'esordio;
  • otto lungometraggi;
  • oltre trecento film a carattere culturale per la televisione e documentari a varia diffusione;
  • una sessantina di volumi tra saggistica e narrativa;
  • un altro centinaio e oltre di volumi scritti in collaborazione, curati, introdotti o riccamente fotografati;
  • gli innumerevoli articoli;
  • le collaborazioni di intellettuali, studiosi di varie discipline, musicisti, scrittori, uomini di cinema.
    Oltre al nome di Braudel, al fianco di Quilici per i tredici film della serie "Mediterraneo" e gli otto di "Uomo Europeo", basti ricordare quelli di Claude Lévi Strauss, Sabatino Moscati, Paolo Portoghesi, Alberto Tenenti, Valerio Castronovo, Renzo De Felice, Pietro Scoppola, Roberto Leydi, e scrittori come Borges, Arpino, Bevilacqua, Calvino, Silone, Piovene, Sciascia, Soldati e molti altri nomi prestigiosi della letteratura italiana impegnati nella produzione della serie di documentari "L'Italia dal cielo", girati fra il 1964 ed il '79.

Insomma una produzione vastissima, costellata da altrettanto numerosi premi letterari e giornalistici e da riconoscimenti nazionali e internazionali in campo cinematografico - come l'Orso d'Argento al Festival di Berlino nel 1956 per il film "Ultimo Paradiso" - alla quale si affiancano la collaborazione con giornali quotidiani e periodici nazionali e internazionali, e docenze alle Università di Bologna, Berlino, Cattolica di Milano e presso il Centro Sperimentale di Cinematografia.

Ma, come sempre, un elenco - per forza di cose sommario - non rende giustizia alla sostanza di una produzione "enciclopedica" si potrebbe davvero definirla, costruita per il tramite di strumenti quali la macchina da presa, la macchina fotografica, la macchina per scrivere, diversi ma complementari, e utilizzati per esplorare, illustrare e raccontare una realtà in fondo unica: l'Uomo e l'Ambiente, la Natura come radice culturale dell'individuo. Intrecciando con tutti gli ambiti di osservazione un vivace dialogo nutrito dal gusto per la curiosità e la fantasia, alla cui formazione concorrono in maniera determinante l'ambiente familiare e gli anni dell'infanzia ferrarese, scanditi da racconti di avventure di cielo e di mare e di viaggi in luoghi sufficientemente lontani ed esotici per suscitare immagini e visioni: la Terra del Fuoco, le pampas, il canale di Panama con le epidemie di febbre gialla, il Messico, il Far West con gli indiani, l'Alaska con le aurore boreali. Insomma, una sorta di repertorio salgariano tra le mura domestiche, alimentato anche dalle letture tipiche di un'epoca. Alla domanda: "quali sono stati i libri della sua formazione?", Folco Quilici non può che rispondere citando i romanzi di Emilio Salgari, appunto, letti dalla A alla Z, di Stevenson, Conrad, Melville, London e i gloriosi volumi della Scala d'Oro.

Un gusto per l'avventura e per il viaggio, per la scoperta di paesi lontani e di culture altre, che - dopo i primi cortometraggi improntati alla narrazione - si trasforma nel pionierismo che lo porta a realizzare il primo lungometraggio: "Sesto Continente", fra il 1952 ed il '54, presentato con immediato successo alla mostra del cinema di Venezia dello stesso anno e subito vincitore del primo premio al Festival di Mar del Plata nel 1955. Commento negativo fu invece quello di Italo Calvino che, per la verità, criticò non tanto la qualità delle immagini quanto il testo speaker di Giangaspare Napolitano. Negli anni successivi, tuttavia, fra lo scrittore ed il regista si sarebbe instaurato uno straordinario rapporto di collaborazione. Calvino infatti scriverà il soggetto per il film "Ti-koyo e il suo pescecane" del 1962, il commento per il documentario "Liguria" per la serie "L'Italia dal cielo" e il testo introduttivo per l'omonimo volume del 1973.

Il mare, dunque, l'acqua: dal Mar Rosso di "Sesto Continente", alla Polinesia, ai mari italiani. Dalle prime prove cinematografiche ("Pinne e arpioni" è il titolo del primo documentario subacqueo girato in Sardegna nel 1949 con attrezzature rudimentali e pericolose), fino alle acque, le coste, le isole, ma anche i cieli, i monti, le campagne e le città raccontati nei cinque episodi della serie "Italia infinita" del 2000.

Come ricorda Ilaria Caputi nella sua monografia, "Sesto Continente" lancia un'immagine pubblica molto precisa: quella di Folco Quilici "regista di mare". Il rischio di ogni troppo forte connotazione è evidente: lo stile, il formalismo, la banalità dello stereotipo. Indubbiamente il mare resta un tema fondamentale nella poetica di Quilici. Un mare osservato, cito ancora Ilaria Caputi, "come habitat di specie animali e vegetali, poi come il grande amico e antagonista delle popolazioni derivanti la loro sussitenza dalla pesca. Il mare sulle cui sponde nacquero antiche civiltà, la gran via di comunicazione tra terre distanti, il ricettacolo di relitti e di tesori archeologici e, infine, la grande metafora per il fluire delle grandi e minute onde della storia. Per tutta la vita Quilici avrebbe studiato e amato il mare attraverso linee interpretative sempre più sottili e raffinate. Ma esso non è che uno solo dei grandi temi che il regista ha esplorato durante il suo complesso viaggio intellettuale. Ciò nonostante, quell'etichetta iniziale che associò in ogni mente il nome di Quilici con il mondo sottomarino è ancora oggi estremamente tenace, e il regista ha cercato a lungo e invano di scuotersi di dosso quest'immagine riduttiva".

In un cinquantennio di attività, di fatto, attraverso le immagini filmate, le fotografie, le pagine di Folco Quilici passano sotto i nostri occhi centinaia e centinaia di esperienze, incontri, viaggi, temi, personaggi, culture molteplici: l'Africa, il mondo islamico, i deserti, figure di artisti come Paul Gauguin, Lorenzetti e Mantegna, gli ambienti naturali dell'Argentina, la sopravvivenza della schiavitù, il pianeta India, i territori ignoti dell'Italia visti dal cielo, antiche necropoli, l'opera di recupero dopo l'alluvione fiorentina del 1966, la vicenda dell'uomo europeo, l'America Latina, le vertigini e le meraviglie del barocco con le fontane di Roma, dove l'acqua viene osservata in una delle sue innumerevoli variabili (una forma di danza), il rapporto tra gli aspetti fisici dei luoghi e la creatività umana, la civiltà slava, il Medioevo, la Grande Epoque e innumerevoli altri temi e aspetti della civiltà. In un insieme di forme e di variazioni che hanno contribuito a definire il lavoro di Folco Quilici "una giungla lussureggiante", nella quale si intrecciano correnti tematiche, passioni ideologiche, sviluppi stilistici.

Sarebbe forse riduttivo definire semplicemente opera di divulgazione la produzione di Quilici se non si tenesse conto di molteplici aspetti. Innanzi tutto il concetto di divulgazione "alta" correlata non alla nozione di consumo ma alla sensibilità poetica e artistica che ha sempre guidato lo strumento filmico e fotografico e la scrittura, e la consapevolezza di un autore costantemente alla ricerca delle complessità geografiche, storiche e ambientali in cui viviamo. In secondo luogo il periodo e il contesto in cui l'opera di Quilici trova nascita e fondamento, con riferimento particolare alla produzione televisiva della seconda metà degli anni Sessanta. In ampio anticipo cioè su una documentaristica televisiva di ampia fruizione e consumo, per lo più legata a serie tematiche limitate, ben definibili e ripetitive (la vita degli animali sotto ogni latitudine, i fiori, le foreste tropicali e poco altro), senza cioè l'apertura verso la profondità della condizione umana alla quale Quilici ci ha abituato: una condizione osservata come continua lotta dell'umanità "per la propria sopravvivenza e la realizzazione del proprio destino"; oltre alla consapevole attenzione verso i problemi ecologici, la denuncia dei guasti provocati dallo sfruttamento indiscriminato delle risorse naturali. Anche questo diversi decenni prima che l'ecologia diventasse "parte della coscienza pubblica", scadendo spesso a sua volta in routine, consumo, parola di denuncia alla moda e sostanzialmente priva di efficacia.

Sotto questo aspetto Folco Quilici è stato indubbiamente anche pioniere dei programmi culturali della televisione italiana, al pari - per esempio - di un altro indiscusso maestro come Roberto Rossellini i cui "difficili" film televisivi (come "Agostino d'Ippona", gli "Atti degli Apostoli", l'"Età di Cosimo de' Medici", per citare solo qualche titolo), potevano andare in onda in prima serata su uno dei due - e unici - canali della RAI. "La televisione che nasceva allora [vale a dire negli anni Sessanta] - cito una dichiarazione di Quilici di metà anni Ottanta - non aveva ancora nulla da spartire col baraccone politico e commerciale di oggi. I dirigenti non pensavano solo agli indici d'ascolto e ai conseguenti incassi pubblicitari..., ma puntavano principalmente a realizzare col nuovo mezzo dei buoni programmi".

È in questo ambito che Quilici trova un fertile terreno che gli permette una sperimentazione e una libertà maggiori di quelle consentite da cinema: una durata ben più ampia di quella concessa a un film per le sale cinematografiche, la collaborazione di intellettuali ed esperti, la possibilità tecnica di girare in bianco e nero e quindi di dipendere meno dalle condizioni di luce atmosferica nelle riprese in esterni.

Il mondo in casa e alla portata di tutti, si potrebbe dire.

Per molti di noi, viaggiatori sedentari, le immagini cinematografiche e televisive di Folco Quilici, le immagini letterarie legate alla produzione libraria, tanto nei saggi quanto nelle opere di narrativa, hanno il valore di una epifania fantastica. Certo, ci mancano gli odori, gli afrori, il calore e i sapori dei tantissimi luoghi che Quilici ha attraversato nel corso nella sua lunga carriera. Ma ogni sua immagine ci obbliga quasi a condividere il viaggio in ogni sua sfaccettatura, rendendo tangibili e percepibili anche a noi quegli odori, quegli afrori, calori e sapori.

Per questo mi piace accostare il nome di Quilici a quello di altri due "visionari" del viaggio e dell'avventura, sia pure costruita, vissuta e alimentata in maniera sedentaria: Emilio Salgari che ci ha letteralmente scaraventato nelle foreste e nei mari del Borneo, nelle sabbie del Sahara, ai Caraibi, al Polo Nord, nel Far West o nell'antica Cartagine e in decine di altri luoghi fisicamente concreti, ma visitati per il solo tramite della creazione fantastica; e il meno noto, probabilmente, ma non per questo meno significativo, Carl Barks, il creatore di Paperino e degli altri paperi disneyani, spesso in viaggio - la famiglia dei paperi, intendo, non l'autore - in foreste tropicali e asiatiche, tra i ghiacci del Klondike, castelli e laghi scozzesi, giungle africane, l'Atlantide, l'Amazzonia, il Tibet e altri paesi dell'estremo oriente, al centro di avventure alle quali fanno da sfondo disegni a fumetti di ambientazione assolutamente aderente alla realtà dei luoghi. Come una serie di fotogrammi cinematografici, appunto, più che una striscia disegnata per la carta stampata.

Il primo, come è noto, ha "viaggiato" soprattutto da casa, documentandosi su luoghi e costumi tramite articoli e diari di esploratori, intervistando reduci di paesi esotici, consultando mappe e atlanti.

Il secondo non si è quasi mai mosso dalla California varcando per la prima volta i confini degli Stati Uniti all'età di novant'anni, e ricavando a sua volta documentazione per l'ambientazione rigorosa delle avventure di viaggio e di frontiera dei suoi personaggi a fumetti da diari, leggende, storie fantastiche, romanzi, miti classici e soprattutto - per la parte visiva - dalla collezione del National Geographic. Ma anche dal cinema e influenzando profondamente il cinema d'avventura, come testimoniano i primi quindici minuti dei "Predatori dell'arca perduta" di Spielberg, che citano fedelmente una vecchia storia di Carl Barks, utilizzata quasi come story board.

Non è un caso che questo rapporto fra fumetto e cinema si ritrovi, a ordini invertiti, anche nell'esperienza di Folco Quilici, come dimostrano le avventure di Corto Maltese sceneggiate e disegnate da Hugo Pratt, autore molto amato da Quilici che per lungo tempo ha accarezzato l'idea di girare un film proprio sulle avventure del marinaio inventato dal disegnatore veneziano.

"La forza fondamentale che alimenta e unifica l'opera poliedrica di Quilici - cito ancora dall'esemplare monografia di Ilaria Caputi - è il suo interesse appassionato per il rapporto dell'uomo con tutto ciò che lo circonda: l'oceano, la giungla, le belve, altri uomini. Ed anche il potere dei movimenti politici, religiosi ed artistici. I suoi film non possono mai essere definiti "documentari sulla natura", perché la sua attenzione non è diretta agli animali, alle piante o ai fenomeni geologici in quanto tali. La sua natura è sempre profondamente permeata dalla presenza dell'uomo, e tutti gli elementi dei regni naturali, siano essi creature marine, alberi tropicali o vulcani in eruzione, acquistano significato solo in quanto parte dell'ambiente con cui l'uomo costantemente interagisce".

Per questo uno dei segni maggiormente distintivi dell'opera di Folco Quilici scaturisce dalla collaborazione con Fernand Braudel, negli anni Sessanta uno degli storici di maggior rilievo di quella scuola francese delle "Annales" di cui è ben noto il ruolo di rivoluzione storiografica operata a iniziare dal trentennio precedente. Ebbene, proprio il "profondo interesse di Braudel per l'interazione tra geografia fisica e destini umani" riesce a trovare espressione visiva attraverso le immagini di Quilici.

La reciprocità fra le scienze umane, la storia, l'economia, l'antropologia, la linguistica, la geografia, la sociologia e la psicologia che è distintiva del pensiero storiografico delle "Annales", le "storie di profondità", il concetto di "storia globale" e del fluire del tempo storico a varie velocità, la possibilità di leggere sotto la superficiale increspatura degli eventi, prendono forma visiva attraverso i cinque episodi girati da Quilici per la serie "Civiltà del Mediterraneo".

Una storia che anziché essere rinchiusa all'interno del Louvre, del British o di altri pur importanti musei, si dispiega attraverso le immagini come esperienza di un viaggio, un'avventura archeologica e antropologica, comparazione fra abitudini arcaiche e la contemporaneità. Traduzione di uno dei principi cardine del pensiero di Braudel: "il passato spiega incessantemente il presente, e il presente spiega costantemente il passato". Traduzione anche delle molte metafore di cui lo storico alimentava la sua ricerca, esaltando infine il senso della Storia come fantasia. Uno strumento - la fantasia, appunto - che, come qualcuno ha affermato, avrebbe fatto venire la pelle d'oca a qualunque altro cattedratico.

Anni dopo, rievocando e interpretando un'esperienza onirica come mutamento di interessi all'interno del proprio lavoro, Folco Quilici ha dichiarato: "ho scoperto d'essermi allontanato dal mare verso l'entroterra, per scoprire poi un "mare" ancora più sconfinato [...]: sto parlando della Storia. Se prima era l'Oceano lo sfondo sul quale osservavo e filmavo un uomo per narrare la storia, oggi il protagonista dei miei film lo osservo sullo sfondo della sua epoca; la Storia è oggi per me l'immensa scenografia rispetto alla quale i protagonisti delle varie epoche e culture si muovono, agiscono, creano, soffrono, gioiscono, combattono, mentre alle loro spalle si accavallano onde di vicende politiche ed economiche, ideologiche, militari, spirituali [...], microscopici punti al centro delle bonacce e delle tempeste che da sempre hanno agitato ogni era".

Come l'ha definita il critico e studioso Tullio Kezich, la figura di Folco Quilici si staglia dunque al centro di un reticolo di "viaggi straordinari" simile al bambino di una poesia di Baudelaire, per il quale "l'universo è pari al suo grande appetito": un fanciullo voracemente proteso, dunque, sulla sconfinata realtà del pianeta. "Scorridore di territori a rischio", lo anche definito Kezich, sottolineando due aspetti fondamentali della sua produzione cinematografica:

  • il primo: la ristrettezza della classificazione di documentarista, avendo sempre dimostrato Quilici che "un documento senza un pizzico di fantasia non ha sapore"; principio avvalorato anche dalla produzione scritta e dalle inchieste travestite da romanzi;
  • il secondo e ancor più significativo aspetto: la solo apparente contraddizione fra coerenza ed eclettismo; da un lato la continuità e lunga durata dello stesso lavoro di ricerca, impaginazione e scrutinio del reale iniziato negli anni Cinquanta; dall'altro il viaggiare verso mete sempre diverse; il saper coniugare passato remoto e futuro, "nell'illusione neoilluminista che ci sia sempre qualcos'altro di sconosciuto, di dimenticato o di sommerso da ritrovare, da verificare e da vivere".

Un autore cinematografico, anche, "in apparenza refrattario - cito ancora le parole di Kezich - all'impegno politico che negli anni Cinquanta [quelli cioè degli esordi] sembra ossessionare buona parte dei suoi colleghi tra militanze nei partiti e firme di protesta. Succede però che nel tempo il presunto disimpegnato viene sempre più rafforzando i legami viscerali con alcuni temi che oggi sono diventati quasi ovunque obiettivi politici di vitale importanza e attualità: l'ecologia ambientale, la difesa delle culture originarie, il terzomondismo, l'antirazzismo, la necessità di tutelare il diritto dei popoli alla sopravvivenza attraverso la pace. Sui sentieri solitari dell'indipendenza, il cineasta finisce gradualmente per approdare, quasi senza rendersene conto, a un impegno politico molto più radicale di quelli che ha trascurato: e quando molti suoi colleghi imparano ad affacciarsi sui territori delle scienze umane e dei diritti civili, lo trovano già là".

È il senso più profondo della coerenza di Folco Quilici. Vale a dire: il presunto disimpegno su un'immagine in fondo superficiale della politica, il non aver ceduto al fascino delle mode e delle consuetudini di certe tematiche cinematografiche, l'impegno concreto, di contro, su contenuti sotterranei - perciò meno evidenti - offrono spessore alla durata e alla continuità del suo lavoro.

Forse in questo risiede anche uno degli aspetti maggiormente profondi della metodologia e della lezione storica braudeliane. Il lavoro di Folco Quilici infatti assomiglia davvero alle correnti silenziose che corrono sotto le superficiali increspature degli eventi e che rivelano il loro significato solo osservando il dispiegarsi della storia seguendola per vaste porzioni di tempo.

Vorrei concludere con un ricordo personale.

Da storico dello spettacolo, ma nello specifico del teatro, sono abituato a lavorare sui concetti di esperienza condivisa, sulle emozioni e sulla memoria, interessandomi essenzialmente non tanto il lavoro sui testi teatrali, ma il significato antropologico e sociale del teatro in quanto esperienza, appunto, e di conseguenza la sua capacità di incidere profondamente sui nostri livelli emotivi - e perciò cognitivi - in uno spazio-tempo di lunga durata.

Normalmente si dice che tutto questo non è commensurabile, tanto meno studiabile, data la natura effimera dell'evento teatrale. In realtà anche il cinema appartiene ai territori dell'effimero. Dal punto di vista materiale, tantissime pellicole prodotte in oltre un secolo dalla nascita del cinema, non esistono più, disperse o dissolte. E l'odierno ausilio della videocassetta o del DVD sono semplici surrogati se pensiamo al cinema da spettatori, all'emozione e all'esperienza condivisa nel buio di una sala. Anche l'arte può svelare la sua natura effimera, ancora dal punto di vista dello spettatore/osservatore. Posso restare ore di fronte alla Gioconda o ad una tela di Van Gogh, ma anche quell'esperienza resta unica.

In realtà in tutti questi percorsi c'è qualcosa che si radica entro di noi, ben lontano dai territori dell'effimero: la possibilità di incidere nella nostra memoria, una volta per tutte, attraverso il ricordo dell'esperienza; attraverso la persistenza di immagini che insieme a tante altre formano il magazzino della nostra memoria emotiva, come la definiva Stanislavskij parlando del lavoro dell'attore. È quello che contribuisce alla nostra formazione, nel tempo e nello spazio, imprimendosi quasi nel nostro DNA, anche quando ci fa compiere un passo di un solo millimetro. Il significato di tutto questo non appartiene ai territori della "ragione". A volte basta poco, un piccolo biscotto, una madeleine, come ci esemplifica Proust, per ritrovare il senso del vissuto attraverso l'onda lunga della memoria.

Io conservo due immagini ben precise e lontane nel tempo, offerte dal cinema di Folco Quilici.

L'azzurro intenso, enorme, avvolgente, nel buio della sala in cui da adolescente mi apparve il mare polinesiano di Ti-koyo e il suo pescecane.

Solo quell'azzurro, nient'altro.

La visione di Campo San Polo, nell'episodio "Veneto" della serie "L'Italia dal cielo": un sito di Venezia a me allora sconosciuto, una visione dall'alto in grado di svelare non soltanto la circolarità della piazza, ma i suoi particolari più intimi secondo un'ottica antropologica e storica insieme. Bene, dopo anni sono andato alla ricerca di quel luogo, avendo nella memoria la sua immagine e le parole dello speaker "ed ecco apparire San Polo...". Un luogo dal quale non manco mai, ogniqualvolta mi accade di andare a Venezia, che non finisce mai di stupirmi, che non finisco mai di investigare ed esplorare, che ho fatto conoscere a molti amici cercando di trasmettere ogni volta l'emozione donata dalla ripresa aerea di Folco Quilici. E che per me rimane indissolubilmente legato al nome di Folco Quilici.

Per gli strani intrecci della sorte e della vita ho avuto oggi il privilegio e l'onore di pronunciare queste parole di presentazione di Folco Quilici, a distanza di molto tempo da quelle esperienze di spettatore.

Nel laboratorio teatrale diciamo che le "tecniche" modificano chi ne è il soggetto, e soggetto è chi è guidato ma anche colui che guida. L'esperienza è condivisa. Guida chi avendo percorso molte volte la strada ne conosce le caratteristiche e i pericoli: ma il viaggio lo si fa insieme. E tutte le volte la strada è nuova: "se hace camino al andar". Il verso di Antonio Machado dice, con la rara precisione che solo i poeti raggiungono, che la strada si fa andando.

Anche per questo dobbiamo ritenere Folco Quilici una guida e un compagno di viaggio sicuro, un maestro, per avere saputo creare, mediante tutti i mezzi tecnici utilizzati, non solo cultura ma soprattutto poesia.