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MARE ROSSO

Anticipazioni dal libro

 

Mar Rosso Meridionale - 1940-'41

Gli ammiragli a capo del "Marisupao", acronimo usato negli anni '40 per indicare la "Marina Africa Orientale Italiana", avevano tentato di creare fin dall'inizio delle ostilità tra Italia e Gran Bretagna una "Squadra Sommergibili" capace di minacciare e interrompere le rotte dell'avversario tra Oriente e Mediterraneo. Programma vanificato dalle forze aeronavali inglesi di base a Port Sudan e ad Aden; esse, riuscirono a decimare le nostre forze subacquee, tecnicamente e tatticamente impreparate al confronto con un avversario inferiore quantitativamente, ma agguerrito, organizzato e di grande esperienza.
I sommergibili Torricelli e Archimede giunsero dall'Italia agli inizi del '40 con equipaggi imbarcati senza sufficiente preparazione e si unirono agli altri quattro del gruppo: il Gemma, il Perla, l'Otaria e il Brin. Questi erano stati sin dal '39 inviati in addestramento nelle acque africane e messi alla prova durante il periodo dei monsoni di nordest e di sudovest. Nel confronto con le furie del mare africano, i loro comandanti avevano riferito dell'estrema difficoltà di far uso delle armi e di svolgere osservazione periscopica durante condizioni tempestose misurate sino a forza 9. Segnalarono inoltre il grave pericolo degli impianti per il condizionamento della temperatura all'interno delle loro unità; erano alimentati con cloruro di metile, prodotto estremamente pericoloso. A seguito di questa segnalazione, era stato richiesto di sostituire il cloruro con il freon, gas non tossico già in uso nei sommergibili di vari paesi. L'invito cadde nelle pastoie della italica burocrazia, con conseguenze mortali non tanto nel Mediterraneo (ove il condizionamento con il cloruro di metile era usato saltuariamente) quanto nelle acque africane.
Laggiù, dove la temperatura interna saliva spesso ben oltre i 40 gradi e l'umidità raggiungeva il cento per cento, i locali dei sommergibili si infuocavano anche se i ventilatori venivano mantenuti in continua funzione. Occorreva quindi ricorrere ai condizionatori. Ma la natura velenosa del cloruro che li alimentava, diventava mortale se per attacco subito in immersione, gli scoppi provocavano nel sommergibile sconnessione di tubature e condotti, con la conseguente fuoriuscita del gas. Essendo incolore e insapore, non se ne avvertiva la presenza finché non si producevano a bordo primi sintomi di avvelenamento; a quel punto diventava impossibile evitare accessi di pazzia e morte.
Questo difetto contribuì drammaticamente al disastro della nostra piccola flotta coloniale inviata all'attacco di un nemico ostinato, capace di forte sorveglianza aeronavale. Resa efficiente anche dalla trasparenza delle acque nel Mar Rosso, che rendeva visibili, a marinai e piloti esperti come i britannici, le unità italiane in immersione.
Per di più la Royal Navy, disponeva del primo efficace nemico dei sommergibili, l'ecorilevatore Asdic; nulla sapevano i nostri equipaggi di quest'apparecchio, sebbene il principio del suo funzionamento fosse da tempo noto alle supreme gerarchie della marina italiana.

Il cloruro di metile provocò il primo disastro pochi giorni dopo lo scoppio del conflitto mondiale. Il Galilei, in agguato nelle acque antistanti il porto di Aden, fu costretto a emergere per esalazioni del gas, appena in superficie venne colpito da mezzi antisom britannici. Morì il comandante, i superstiti in stato di semincoscienza non riuscirono a autoaffondare la loro unità né a distruggere i cifrati. Gli inglesi, fatto prigioniero l'equipaggio, riuscirono a rimetter in moto le macchine del Galilei e, trionfalmente lo condussero come preda nella loro base. Una bandiera inglese al vento, sopra l'italiana: giorno non solo del disonore ma con gravi conseguenze per il resto della nostra flotta sottomarina: in mano all'avversario erano i codici segreti e l'ordine delle operazioni relative agli altri sommergibili operanti nel Mar Rosso.
Da quel momento la caccia alle nostre unità fu sin troppo facile.
L'Archimede era intanto, a sua volta, in difficoltà. Molti membri dell'equipaggio intossicati dal cloruro, erano in preda a una sorta di frenesia distruttiva; e il gas non tardò a provocare i primi decessi. Lo stesso accadeva a bordo del Macallé. A causa del metile, il suo comandante perso il controllo delle proprie azioni, portò per errore il sommergibile a incagliarsi sul reef di fronte a un'isola, dove poco dopo affondò.
I superstiti si rifugiarono a terra e, di lì, tre coraggiosi partirono a cercar soccorsi. Con poche gallette e tre bottiglie di acqua, su un canotto lungo appena due metri e come vela di fortuna un telo di branda, percorsero oltre cento miglia. Soffrendo sete, fame e fatica, raggiunsero infine un presidio costiero italiano. Dato l'allarme, l'equipaggio venne recuperato dal sommergibile Guglielmotti.

Anche il Perla si mise nei guai da solo. Per l'incompletezza delle carte nautiche militari ritenne d'essersi perso nel dedalo d'isole del Mar Rosso meridionale. Per orientarsi chiese via radio, al comando di Massaua, l'accensione di un fanale in un'isola sotto controllo italiano che riteneva non lontana dalla sua posizione. Sarebbe stato un punto sicuro cui riferirsi per ritrovare la rotta.
Fu un errore fatale.
La comunicazione cifrata venne intercettata dal comando delle forze navali inglesi, che rapidamente la decodificarono basandosi sul cifrario italiano caduto in loro mani. Una unità da guerra, lo Shoreham, raggiunse la zona e attaccò il Perla, subito immerso, con bombe di profondità. Il nostro sommergibile restò immobile sul fondo per ore, mentre all'interno dello scafo la temperatura saliva sino a 64 gradi. Le bombe non colpirono il Perla, ma lo spostamento d'acqua investendo lo scafo provocò lesioni alle condutture del gas di raffreddamento, con fuoriuscita di cloruro vaporizzato. Di conseguenza parte dell'equipaggio, tra cui lo stesso comandante ed il direttore di macchina, caddero privi di sensi. Cinque marinai, impazziti, dovettero essere legati.
Malgrado questo, l'unità restò coraggiosamente immersa; sicché quando nella notte il Perla emerse, s'era salvato dalla caccia dell'avversario, ma l'intero equipaggio era ormai intossicato; chi ne aveva preso il comando, non perfettamente in sé, portò il sommergibile a incagliarsi in secche madreporiche.
Di nuovo venne usata la radio per chiedere soccorso. Massaua, ricevuto il messaggio, inviò unità di salvataggio ma gli inglesi, intercettata e decifrata anche questa comunicazione, inviarono quattro torpediniere e una unità maggiore ad attaccare il sommergibile incagliato. Bersaglio di martellante cannoneggiamento, il Perla era ormai condannato quando apparvero in cielo otto aerei italiani. A bassa quota sganciarono sulle navi attaccanti, in due ondate, bombe di vario calibro e costrinsero gli attaccanti al ritiro.
Questo consentì di far subito salpare da Massaua due veloci MAS con tecnici e maestranze. Nella notte, raggiunto il sommergibile lo rimisero in condizione di navigare e il Perla fu salvo. Pochi mesi dopo riuscì a fuggire dal Mar Rosso, circumnavigò l'Africa e si mise in salvo nella base italo tedesca di Bordeaux.

Anche il Torricelli, nello Stretto di Perim, fu costretto a emergere a causa delle esalazioni velenose, ma il suo destino fu diverso. Si trovò subito a dover affrontare in superficie cinque cacciatorpediniere avversarie, ma lo scontro andò diversamente da com'era facilmente prevedibile. Il caccia Shoreham, preso di mira dal cannoniere del Torricelli da una distanza di cinquemila metri, "incassò" un colpo in pieno e fu costretto ad abbandonare il campo.
Le altre unità minacciate da tiri egualmente precisi, furono obbligate a manovre tortuose e di conseguenza i loro cannonieri non riuscivano a mirare e colpire il Torricelli che si difendeva bene con il suo cannone. Chi lo manovrava e puntava sembrava infallibile, benché il pezzo fosse danneggiato.
Fece centro sul secondo caccia inglese, il Khartoum, causando un incendio nel deposito munizioni, la conseguente esplosione e l'affondamento.
I tre superstiti mezzi avversari serrarono le distanze, per farla finita, ma dal sommergibile partirono i siluri di prua. Pur arrivando a segno, costrinsero gli attaccanti a un'ennesima accostata che questa volta sarebbe stata definitiva se un'ultima bordata degli inglesi non fosse riuscita a infilare una granata da 120 all'interno del Torricelli. S'aprì uno squarcio, il nostro sommergibile cominciò ad affondare. Il comandante ordinò all'equipaggio di porsi in salvo, lui diresse l'operazione poi si installò in plancia. Intendeva morire sulla sua unità.
All'ultimo momento però un suo marinaio si gettò in acqua e lo salvò di forza, strappandolo dalla falsatorre. Quando il comandante antagonista se lo trovò di fronte, scattò sull'attenti: "Sono dolente che abbiate perduto la vostra nave" esclamò "ma questa è la guerra. Permettetemi di esprimere la nostra più alta ammirazione per tanto valoroso comportamento."
Il generale inglese al comando della piazza di Aden volle poi incontrare gli italiani prigionieri. E porse al comandante e al cannoniere da parte dell'Ammiragliato di Londra, le congratulazioni della Royal Navy.