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Immersione difficile a Dur-Fidalh
Sì, tutti e tre desideravano entrare in quel relitto.
Ma, a parte il rischio questa iniziativa di quanto avrebbe ritardato la ricerca dell'Elizabeth?
Si rivolse ad Azhar: "Lei conosce questi luoghi, maggiore. Mi dia una sua previsione sulla durata di questa tempesta di vento."
Prima del militare rispose il comandante del Mranz, con fragorosa risata e conseguente sobbalzare di un ventre di molto debordante dalla cintura dei pantaloni.
"Questo militare non sa nulla del mare, professore... questo è un eritreo montanaro. Noi del mare, invece... Scommetto dieci dollari con lei: il khamsin durerà ancora un giorno, una notte, un giorno ancora. Poi il mare resterà agitato quasi una settimana."
A quel personale, ma attendibile, bollettino meteorologico Marco e Juv si scambiarono un'occhiata. E furono subito d'accordo su come programmare la giornata.
"Tenti! Fuori dagli astucci scafandri e caschi. Prepariamo le miscele. Immersione entro mezz'ora."
"Chi scende per primo? Chi resta a bordo?"
"Nessuno di noi resta a bordo... andremo sotto insieme." Sarah a evitare quanto lei definiva "discriminazioni premurose ma inaccettabili" aveva puntato il dito indice alla sua t-shirt. Una premonizione?... gialla su nero portava a caratteri cubitali la scritta: WOMEN-YES.
Ci volle oltre un'ora per la vestizione. Un tempo eccezionalmente breve, se riferito alla messa a punto delle attrezzature individuali e quelle, ancor più complesse degli impianti a bordo, dai quali derivava la sicurezza dei tre immersi, la durata della loro immersione, la libertà di movimenti, le possibilità di agire. Indossare scafandri nel caldo torrido era stata una tortura, ma i tre avrebbero sopportato anche di peggio, pur di rompere ogni indugio e penetrare il mistero sepolto oltre quel boccaporto spalancato quaranta metri sotto i loro piedi.
Prima di aiutarli a scendere in acqua, Tenti ai tre acquanauti, vestiti ma ancora senza casco, riepilogò la posizione dei contatti incastonati nel braccio sinistro dello scafandro. Gli in e out dei diodi sul display, collegati a varie funzioni, si sarebbero accesi e avrebbero lampeggiato quando attivati. Chiuse poi la tenuta stagna dei caschi e un sibilo precedette d'un istante l'immissione nello scafandro della miscela; gradevole perché molto fresca.
Subito dopo, isolati nel morbido scafandro, i tre controllarono l'un con l'altro e con Tenti ricezione e trasmissione del telefono intercomunicante, gli auricolari imbottiti in gommapiuma. Infine ciascuno strinse alla vita cinture di adeguata zavorrate, così da "pesare zero" una volta sul fondo. S'attivò intanto automaticamente il condizionamento interno dello scafandro: un reagente chimico fuso nel tessuto interno avrebbe mantenuto invariata la temperatura sui 19 gradi (e anche questo era un dono della tecnica spaziale e sottomarina).
Infilati gli scarponi la vestizione finalmente ebbe termine e i tre entrarono in acqua a distanza di sicurezza l'uno dall'altro. Marco per primo, Sarah dopo di lui, Juv ultimo.
Le manichette che avrebbero portato aria e riassorbito quella espirata si srotolarono veloci, nella discesa. E uno dopo l'altro i tre raggiunsero il bordo frangiflutto della falsatorre e bilanciandosi poi, si posarono verticali, nella plancia comando del relitto. Si guardarono d'attorno, tutto appariva come lo avevano visto ritratto dalla telecamera, a bordo. Ma diverso nelle proporzioni, adesso ne percepivano la giusta misura. Era una struttura grande e minacciosa, dalla linea severa e essenziale d'una macchina da guerra.
"Tutto Ok?" dalla superficie la voce giunse chiara e netta.
"Ok."
"Buon lavoro! Resto in ascolto."
Il gioco d'ombre, a quaranta metri, era molto sfumato. Attorno alla falsatorre, dove i tre poggiavano i piedi, lo scavo del reef aveva creato una sorta di cratere dove l'acqua era immobile, verde cupa. Il faro mobile nelle mani di Sarah, si accese a un segno di Marco. Tutti e tre chiusero gli occhi per non restare abbagliati, e quando li riaprirono il potente fascio di luce rivelò un luogo molto diverso da come appariva in superficie attraverso l'obiettivo della telecamera. Il raggio direzionale creava ombre precise, e questo metteva a confronto le proporzioni, consentiva di vedere la plancia nella sua misura.
Iniziava una accurata ricognizione, la ricerca di un indizio. Sarebbe stata lenta e lunga, ma fortunatamente il faro da utilizzare non era solo potente, ma inesauribile. Per l'alimentazione si collegava infatti alla superficie lungo la stessa manichetta per la respirazione e così godeva di autonomia illimitata. Poco prima del tuffo, Marco aveva ordinato a Tenti di spegnere, sul fondo, la lampada xenon di servizio accesa accanto alla telecamera subacquea. Preferiva un'osservazione compiuta illuminando solo i punti dove si sarebbe concentrata la loro attenzione; il contrasto con le zone d'ombra avrebbe favorito l'osservazione.
Il raggio mosse tutt'attorno, dove il robot aveva spezzato, staccato e eliminato ogni fioritura della scogliera cresciuta sul relitto. Coralli, madrepore, alcionarie, spugne, gorgonie, erano stati spezzati e triturati; il cratere creato dallo scavo appariva incolore, lungo la cicatrice. Materia neutra dalla quale emergevano le brunite sovrastrutture d'acciaio.
"Centra il faro sulla sommità del periscopio, Sarah... Adesso a te, Juv."
Malgrado la mole e la scafandratura lo facesse sembrare più goffo dei due compagni ("sembro l'omino della Michelin" aveva bofonchiato durante la vestizione) raggiunse il periscopio con balzi ben calcolati della gamba utilizzabile; e quando si fermò in bilico sul bordo superiore del frangiflutto, aveva offerto ennesima prova della sua acquaticità. In perfetto equilibro statico, estrasse dal marsupio uno strumento di medie dimensioni, lo strinse tra le mani e cominciò a muoversi attorno al terminale del periscopio mentre i due compagni gli si avvicinavano. Confrontando le loro mosse e quella appena compiuta da Juv, si rivelava la differenza tra il suo assetto - la sua posizione in acqua - e quella dei compagni; lui, vecchio palombaro, malgrado l'handicap della gamba rigida, si muoveva con disinvoltura in movimenti fattisi istintivi dopo decine e decine di immersioni; Marco e Sarah erano invece ancora goffi nel procedere in verticale, abituati com'erano all'orizzontalità del nuoto con le pinne. Per loro, erano questi i primi minuti d'immersione realmente operativi, e si scoprivano d'ancora limitata esperienza nelle scafandrature da palombaro.
Juv aveva iniziato l'osservazione: "Questo è il contenitore esterno del periscopio, la parte ottica è rimasta al suo interno. Veniva estratta solo in immersione..."
Avvicinato il cristallo del casco a pochi centimetri dal terminale del periscopio, poggiò sul metallo coperto d'incrostazioni lo strumento stretto nella sua destra. Altro piccolo gioiello creato da Realatti, da Juv battezzato "grattugia".
"Qui potrebbe esserci inciso qualche numero o matricola, o marchio." La testa rotante cominciò a vibrare, lui la guidò con mano ferma lungo il tubo per liberarlo da quanto non era stato del tutto rimosso dallo scavo.
""Pinocchio" ha lavorato all'ingrosso. Adesso si opera di fino."
"Ti occorrerà molto tempo?" stava per chiedere Sarah; era lei, nelle immersioni di ricerca e recupero, a regolare le operazioni in base alla riserva d'aria. Tacque, adesso tutto era diverso.
Nelle immersioni precedenti, fossero state a corpo libero con bombole sulla schiena, oppure nel guscio corazzato dei minisub da alta profondità, era continuo l'assillo per la riserva d'aria. La si consumava di minuto in minuto, la scorta era sempre più vicina alla fine. Adesso, con quanto inviava il compressore dalla superficie, il tempo dell'immersione poteva dilatarsi, scorrere senza provocare ansie ogni qualvolta lo sguardo cadeva sul quadrante "aria". E il quadrante al loro braccio indicava la qualità non la quantità della miscela Nitrox da respirare.
Nell'uso comune si somma un 21% di ossigeno con il 79% di azoto. Nella miscela-Realatti l'aggiunta di un gas neutro particolare in miscela non dichiarata (era questo il dato segreto dell'attrezzatura da lui ideata) consentiva ai palombari muniti delle sue scafandrature di raggiungere il fondo e lavorare, sin oltre cento metri, senza incorrere nel pericolo d'embolie. E annullava anche la schiavitù delle tappe di decompressione al momento di risalire alla superficie.
Alla miscela, s'aggiungeva un "equilibratore autonomo", altro gioiello segreto della Realatti, in grado di variare il livello di pressione su ogni centimetro quadrato del corpo immerso a ogni variazione di quota, nello scendere e nel calare. Un automatisimo in grado di consentire totale libertà d'azione, liberando il palombaro da ogni preoccupazione, libero di concentrarsi sulle operazioni da svolgere.
"Sposta la tua grattugia Juv. Quel troncone di periscopio non mi sembra possa rivelare nulla."
"D'accordo... allora centriamo il faro sul bordo interno del frangiflutto. A volte i sommergibilisti vi segnavano punti di riferimento..."
Marco era d'opinione diversa.
"Juv direi di lasciar perdere. Inutile perdere tempo, cercare qui una lettera o un numero. Quello che vogliamo sapere con precisione è scritto da qualche parte sotto di noi. Dentro questo scafo."
Marco parlava e già Sarah orientava il fascio di luce sul boccaporto spalancato. Là s'apriva la via per penetrare il sommergibile, l'obbligato passaggio per affrontare una ricerca completa.
Con aggressività ragionata (così Sarah, un giorno, aveva definito il decisionismo del compagno di lavoro) aveva messo a fuoco l'obiettivo apparso come primario sin dal momento in cui il robot aveva concluso lo scavo.
Sino ad allora aveva tergiversato perché riteneva molto rischioso varcare quel confine; capiva adesso quanto fosse difficile rinunciare, non proseguire, far finta di non aver visto. Perdere l'occasione per risolvere i dubbi sul relitto, l'occasione per raccogliere informazioni sufficienti così che altri, successivamente, quell'enigma riuscissero a risolverlo del tutto.
Si rivolse verso Juv, cercò di cogliere un minimo segno di dubbio o di incertezza; in genere era lui un "freno prudente". Adesso, sembrava invece il più deciso a rischiare.
"OK, scendiamo."
Non era un ordine, ma un invito. E lo completò rivolgendosi a Sarah. "Illumina l'interno del condotto. E andiamo a dare un'occhiata."
Juv alzò un braccio: "Un momento!..." riteneva necessario rivolgere ai due compagni una domanda preliminare: "Vi sentite a vostro agio nella scafandratura?... nessuna incertezza?" lui l'aveva notata, a inizio immersione.
"Va meglio di minuto in minuto."
"Bene, ora continueremo in verticale... ma a testa all'ingiù, per tentar di scivolare lungo il condotto oltre il boccaporto, sino all'interno..."
Sarah puntò adesso il raggio di luce nel pozzo buio. Qui, dove il "Pinocchio" demolitore non era entrato, la fioritura rigogliosa di formazioni era intatta. Colori di fuoco, dal rossobruno al viola, addobbavano la parete circolare, opponevano la loro presenza al raggio luminoso, impedivano di rischiarare la via verso l'interno. L'immancabile mugugno di Juv rimbombò nei caschi: "Ci sarà da lavorare parecchio per aprire la strada. Non credo sia possibile demolire quel groviglio di coralli con il mio apparecchio manuale."
"Stai a vedere, pessimista." Marco si era inginocchiato sulla plancia e allungava le braccia oltre il bordo del boccaporto. Le mani guantate toccarono il groviglio policromo e lo mossero in ogni senso, come fossero le erbe e i fiori giganti del paese dove Alice compiva le sue scorribande.
Con gesto deciso scostò uno dei rami cresciuto all'imbocco del condotto e lasciò intravederne una parte. Era sgombro.
Si girò verso Juv: "Avresti dovuto studiare di più la morfologia delle policrome tappezzerie che decorano i mari tropicali. Sapresti che dove giunge poca luce crescono soprattutto coralli molli, come questi, alcionarie e gorgonie..."
Gli fece eco Sarah: "E dove luce e correnti mancano, come in questo condotto, madrepore e formazioni coralligene solide non attecchiscono, non si sviluppano."
"Grazie per la lezione, mi ripresenterò a ottobre per l'esame." Il tono non era irritato, Juv era solo impaziente, poco disposto a comportarsi da studente, in quel momento.
"Smettiamo di scherzare... Chi s'infila là dentro per primo?"
"Sarò io, ma non subito." Marco guardò verso l'alto dove, qualche metro sopra le loro teste, si intravedeva, spenta, la lampada allo Xenon.
"Superficie?... Tenti? Mi sente?"
"Perfettamente."
"Riaccenda il sistema d'illuminazione. Lo tenga piazzato sopra il condotto dove noi stiamo per infilarci. Le lampade portatili ci aiuteranno all'interno, ma voglio anche vedere luce scendere dal boccaporto. Non intendo perdere il contatto visivo con l'esterno del relitto."
"Eseguo."
Nel riverbero uniforme subito diffuso, Marco estrasse il coltello di dotazione dalla guaina: "Juv, fai altrettanto. Tu ed io mentre scendiamo verso l'interno taglieremo quante più ramificazioni molli sarà possibile. Dobbiamo sfoltire il passaggio. Sarah aiuterà l'operazione centrandoci con la torcia."
Parlando, s'erano portati tutti e tre ai bordi del boccaporto. Fissavano il condotto e Sarah aggiunse: "Laggiù, dove l'acqua è del tutto immobile, morta e l'oscurità assoluta, è possibile crescano spugne. A loro non occorrono né luce né correnti. Sono le uniche a accettare la non vita."
"Ragazzi, siete perfetti come professori. Ma adesso andiamo..." (A Juv, Sarah sembrava a volte la maestrina d'una scuola di campagna, per la quale il resto del mondo appare come una classe indisciplinata e ignorante).
La voce di Marco, già entrato per metà nel condotto, echeggiò negli auricolari: "Tenti! manichette dell'aria da mollare con molta attenzione. Non troppo velocemente, c'è il rischio che s'incastrino. L'imboccatura del boccaporto è stretta"
"Roger, professor Arnei."
"Grazie! ma non mi chiami professore, in momenti simili mi confonde!"
Nel monitor Tenti vide i tre infilarsi nel passaggio oltre il boccaporto.
Trattenne il fiato. Da anni seguiva immersioni di palombari e sommozzatori, ogni volta nel vederli sparire dai monitor, sentiva una stretta al cuore. Era paura, invincibile ostacolo per il quale non era riuscito a diventare uno di loro. Gli era impossibile superare la sensazione di lasciarsi inghiottire dall'ignoto per entrare nel mondo scuro di acque profonde. Come certi motoristi d'aviazione, insostituibili nella cura di un aereo, compagni fraterni dei piloti, ma che è impossibile far salire a bordo e portare per aria.
Marco calava lungo il condotto verticale, testa in basso, braccia e mani tesi avanti a lui, il coltello nella destra in continuo movimento per aprirsi una via quando si trovava davanti qualche escrescenza sviluppatasi come eccezione alle leggi biologiche sottomarine. In uno spazio a malapena sufficiente al passaggio di un uomo, il condotto scendeva dritto come un fuso, per una lunghezza che lui calcolò in circa dodici metri, misurandola dalla falsatorre esterna alla camera di manovra, cuore del sommergibile. Era la via salita e scesa dall'equipaggio per andare dall'interno dello scafo alla plancia esterna quando il sottomarino tornava in superficie; o viceversa nel momento di una immersione. I piccoli pioli per salire e scendere erano adesso confusi in una crosta di ruggine e fanghiglia. Ai tre sub chiusi negli scafandri e quindi rallentati e affaticati, il tempo per arrivare in fondo al budello, sembrò interminabile.
D'essere alla fine del condotto, lo avevano capito sentendo aprirsi uno spazio vuoto davanti al casco. Dopo lunghi minuti a testa in giù, fu un sollievo raddrizzarsi, uno dopo l'altro, e calare con circospezione in posizione normale. Restarono vicini e immobili, attendendo il depositarsi del torbidume sollevato dai loro movimenti.
L'ignoto adesso li attendeva.
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