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Ho appena vissuto un’avventura da
“cacciatore di marmi”, così come si può definire
chi si inoltrava in tempi lontani in zone remote e inospitali. Là
dove si riteneva che sabbie e rocce celassero giacimenti a volte più
preziosi di quelli auriferi.
Ricerche accanite avvennero oltre duemila anni fa e ancora
continuano soprattutto tra le impervie montagne d’Egitto.
Là tra altri marmi, s’estraeva quanto faceva
impazzire di desiderio gli Imperatori romani, il porfido, dallo splendido
color rosso-sangue e compatto e duro da esser considerato eterno; e per
questo riservato a ritrarre Dei e Faraoni.
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I romani fecero compiere ricerche
per individuare la segreta cava degli egizi, e la scoprì nell’età
di Tiberio, il legionario Caio Cominius Leugas. Da allora in poi agli
Imperatori di Roma fu possibile essere ritratti nella stessa rara materia
riservata ai Faraoni.
Dopo Roma, di quella cava si persero le tracce. L’avrebbe
ritrovata a metà ottocento un inglese, l’egittologo Hume,
vagando per il deserto e mostrando un pezzo di porfido ai beduini delle
montagne. Continuando a chiedere se sapessero da dove proveniva, finì
con ritrovare la cava perduta.
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Dove,
nel 1936, giunsero quattro strani cacciatori di marmo dal berretto con
una piuma. Erano alpini inviati in Egitto da Mussolini (o da un suo zelante
incensatore), a cercar la cava del porfido. Il Duce desiderava evidentemente
essere a sua volta ritratto nella materia riservata a Faraoni e Imperatori.
Giunti tra i monti detti Gebel Abu Dokhan, ovvero “fumanti”
per il calore infernale che li caratterizza, i ricercatori Berardi, Lerario,
Quatolo e Rossi cercarono e trovarono la cava nelle gole del Gebel, come
testimoniano i loro nomi incisi su quelle rocce. Ma non furono in grado
di riportare in patria un blocco atto alla bisogna, sicché Mussolini
dovette accontentarsi di venir ritratto in un porfido proveniente dai
monti di Bolzano, un busto recentemente ritrovato da Dario Del Bufalo.
Archeologo e storico dell’arte, oggi uno dei più accaniti
ed esperti “cacciatore di marmi”, sia quelli scolpiti, sia
quelli vergini; è suo il progetto di ritrovare la maggior cava
di basanite, probabilmente sepolta nelle sabbie contese tra Sudan e Egitto.
Di là, lui sostiene, venne il marmo per scolpire straordinari e
giganteschi capolavori, come l’“Ercole” al Museo Archeologico
di Parma.
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Gli sono a fianco, in questi mesi, in un’altra
caccia a marmi preziosi. Non per farne statue o busti eterni, ma un film-documento
spettacolare.
Insieme abbiamo risalito alte montagne d’Egitto,
sino al sito chiamato “Mons Claudianus”, dal nome dell’Imperatore
che vi spedì, come i suoi successori, migliaia e migliaia di schiavi,
in maggioranza cristiani. La loro condanna ad metalla consentì
di estrarre e modellare colonne gigantesche, alcune di quasi venti metri
e molte tonnellate di peso. Calate dalle montagne, trascinate nel deserto,
imbarcate prima sul Nilo e trasportate poi attraverso tutto il Mediterraneo,
e giunte a Roma, giganteggiano da allora, intatte, nel pronao del Pantheon.
Altra caccia ai marmi m’ha condotto a individuarne
un giacimento imponente sul fondo del mare di Taranto. Appena la meteorologia
me lo permetterà raggiungerò quel sito con un potente robot
e se l’operazione riuscirà, potrò vantarmi d’essere
un “cacciatore di marmi” con specializzazione sottomarina.
Folco Quilici
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